BC: Nel tuo libro rifletti su cosa significhi avere un corpo e fai sì che anche il lettore ne diventi consapevole. Che obiettivo ti proponevi quando hai deciso di affrontare questo tema?
AK: Il mio obiettivo era mettere in luce gli aspetti più strani e spesso trascurati dell’avere un corpo. In molte opere letterarie, infatti, il corpo esiste soltanto visivamente, oppure sotto forma di gesti che aiutano il lettore a distinguere i personaggi l’uno dall’altro. A me invece interessava rendere il corpo parte integrante dell’ambientazione, perché in fondo non è proprio lì che nasce ogni nostro desiderio, ogni nostro pensiero? Volevo renderlo un personaggio, un elemento che spinge all’azione, che contribuisce alla trama. Volevo che le figure principali del romanzo fossero costrette a rapportarsi con esso. Così ho messo il corpo sotto i riflettori in tutta la sua reale, scomoda fisicità.
BC: Al momento stai conseguendo il dottorato in retorica alla UC Berkeley: gli studi hanno influenzato il tuo modo di scrivere, il tuo utilizzo della lingua?
Sì, mi hanno influenzato moltissimo, non tanto nell’uso della lingua, però, quanto nella mia concezione di corpo, capitalismo e media. Ritengo il linguaggio accademico difficilmente applicabile alla narrativa: non riesce a riflettere gli aspetti sensoriali e ostacola l’assorbimento della storia, l’immedesimazione.
Ciò che ho ricavato dai miei studi a Berkeley, sulla teoria critica e sulla storia della scienza, è stato un interesse per il modo in cui i media influenzano la persona e per la precarietà del concetto di umano, dipendente com’è dal «sovrumano». Ora sono più diffidente nei confronti di un approccio troppo netto e disciplinato al mondo.
BC: Nel leggere il tuo romanzo ci sono venuti spesso in mente Don DeLillo e Murakami, a volte anche George Saunders. Quale autore ti ha influenzato di più come scrittrice?
AK: Amo gli scrittori che avete citato, ma ne aggiungerei altri alla lista dei miei preferiti. Leggevo molti autori giapponesi quando ero più giovane, scrittori come Kobo Abe e Yoko Tawada, e adoravo il modo in cui nei loro libri l’ordinario e lo straordinario si intrecciavano.
BC: In un’intervista hai dichiarato: «Amo scrivere, ma mi fa tirare fuori la parte peggiore di me, la più riflessiva, quella che è più interessata a comporre una frase “corretta” piuttosto che a correre dei rischi». Vorresti correre dei rischi, scrivendo? Vorresti sfidare o rielaborare le convenzioni letterarie?
AK: Sono convinta che quando si sfidano le regole si debba decidere attentamente, strategicamente, quali aspettative si vogliono soddisfare e quali, invece, deludere. Una scala è ciò che ti permette di spostarti dal punto A al punto B tramite una serie di scalini, di livelli consecutivi – raggiungere il punto B senza procedere per gradi sarebbe impossibile!
In questo libro ho voluto sfidare il lettore a soffermarsi su immagini e sensazioni dal significato non del tutto chiaro, un’esperienza che rispecchia quella che abbiamo guardando un programma televisivo continuamente interrotto dalla pubblicità, o quando facciamo zapping. La mia protagonista, A, viene spinta a cambiare drasticamente la propria vita non da un unico evento cardine, ma da una serie di piccole interferenze che si accumulano dentro di lei e sfociano in una trasformazione profonda. In questo senso ritengo che Il corpo che vuoi richieda pazienza da parte del lettore, la volontà di cercare una storia di tipo diverso all’interno della storia stessa. In ogni caso mi sono divertita molto a scriverlo, specialmente quando mi sono inventata quelle pubblicità surreali e quegli strani programmi televisivi, e credo che questo aspetto divertente – l’umorismo assurdo e il sapore pop – contribuisca a tenere il lettore incollato alla pagina.
BC: In un’intervista hai detto: «La televisione ci ha insegnato a guardarci da vicino, così da vicino che il nostro volto praticamente scompare, diventa un paesaggio di pori». Il tuo romanzo esamina la quotidianità allo stesso modo: ciò che è familiare diventa estraneo e lo diventa a tal punto che all’inizio tutti noi credevamo che la narratrice, A, fosse un clone. A tuo parere cosa, nella quotidianità, meriterebbe un esame più attento?
AK: Non mi piace la parola «quotidianità». Trovo che indichi un qualcosa che abbiamo deciso di dare per scontato, che non richiede ulteriori riflessioni. Invece, ogni volta che si riflette in maniera più approfondita su un determinato aspetto della cosiddetta quotidianità, questo diventa più interessante, più bizzarro e più profondamente connesso ad altri aspetti cui non avevamo pensato. Il termine «quotidiano» equivale a «indiscusso», e spesso serve a normalizzare o nascondere certe questioni – legate al capitalismo o alla nostra natura di carnivori, ad esempio – che altrimenti troveremmo inquietanti.
BC: Il tuo romanzo affronta il tema dell’industria della bellezza in termini familiari ma, allo stesso tempo, estremi (mi riferisco ai prodotti che hai inventato, come la crema viso commestibile). Che cosa, nella nostra cultura, ti ha ispirato in questo senso?
AK: Da quando sono diventata anch’io una consumatrice di prodotti di bellezza, ho assistito a grandi cambiamenti nell’industria dei cosmetici. Oggigiorno ogni tuo desiderio, per quanto inverosimile, può diventare realtà. Mi affascina in particolare che ormai si ritenga normale infrangere la barriera rappresentata dalla pelle: le iniezioni di botulino sono molto diffuse, siamo tutti più propensi a modificarci dall’interno e l’idea non ci fa affatto inorridire. Ritengo che questo sia legato all’abitudine acquisita di guardarci più da vicino: abbiamo a disposizione immagini ad altissima definizione e l’invecchiamento è visto come qualcosa da cui è possibile guarire. Non voglio condannare questo periodo storico, vorrei solo che il cambiamento che l’industria della bellezza sta attraversando fosse notato e percepito, in tutte le sue contraddizioni.