IN CUI SI PARLA DI: buoni rimorchiatori, buone donne, piromania, belle risate, viaggi in topless, fustigazione come dimostrazione di affetto, LSD, alternativa di Montaigne all’orrore.

L’autrice Elaine Dundy, «matrigna cattiva» della chick lit, sapeva che la libertà, per le «giovani arrabbiate», era indissolubilmente legata all’umorismo.

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, giugno 2010

«Diamine, era buona» recita una delle battute più famose di Scandalo a Filadelfia. La pronuncia Tracy (Katharine Hepburn), riferendosi a Il Vero Amore, la barca sulla quale aveva navigato con il suo ex marito, Dexter (Cary Grant). Con «buona» Tracy intende «facile da maneggiare, agile, veloce, brillante, tutto quello che una barca dovrebbe essere». Più tardi Dexter ripete la frase e quando, inevitabilmente, i due tornano insieme, perché sono Katharine Hepburn e Cary Grant e non possono che finire insieme, Tracy promette di essere buona. Sii quello che vuoi, risponde lui, e si sposano.

Nel 1952, dodici anni dopo l’uscita del film, l’autrice Elaine Dundy chiamò sua figlia Tracy in onore del personaggio di Hepburn, e chiese all’attrice di farle da madrina. Hepburn accettò spiegando che aveva scelto il nome Tracy per il suo personaggio in onore dei rimorchiatori J. M. Tracy che risalivano con determinazione l’East River e che le sembravano «buoni».

Il battesimo della figlia di Dundy fu uno dei momenti più esplicitamente influenzati dal cinema in una vita già fortemente influenzata dal cinema e dal teatro, in particolare dalle commedie hollywoodiane degli anni ’30 e ’40. Essere un’eroina da screwball comedy, Dundy ne era certa, era la sua vocazione: «Non dimenticherò mai il sollievo che provai quando scoprii per la prima volta quei personaggi» scrisse. «Capii immediatamente che avrei dovuto essere come loro, perché non potevo essere come nessun altro». Sin dall’adolescenza trascorsa nei vellutati teatri di Manhattan, Dundy era stata mossa da «un appassionato desiderio di emulare» queste donne argute, sicure di sé, che erano pari, se non migliori, degli uomini. Hepburn che si arrampica sullo scheletro di un brontosauro, Barbara Stanwyck che colpisce la testa di Henry Fonda con una mela, Irene Dunne che sfascia allegramente la macchina in un fosso; donne che trasformavano il mondo intero in un parco giochi, queste erano le visioni che plasmavano l’immaginazione di Dundy.

Da Hepburn a «Tracy», a Dundy, a Tracy: il filo che unisce le screwball comedy alla vita di Dundy e ai suoi racconti potrebbe essere anche il mezzo per capire in che modo l’arte trasforma l’esperienza di tutti i giorni. Le storie che vediamo influenzano le storie che ci raccontiamo sulle nostre vite. Quello che Dundy ha appreso dalle commedie di Hollywood, è che la comicità è una scelta, legata sia al movimento pubblico verso l’emancipazione femminile che alle dinamiche private della volontà individuale. Il fatto che un avvenimento sia divertente o triste non dipende dall’evento in sé, ma dalla nostra reazione: questa, almeno, rimane una nostra scelta. Non piangere se puoi ridere, non renderti la vita più difficile di quanto già non sia. Ridere è una cosa seria, perché divertirsi è un modo per insistere su noi stessi, per resistere alle imposizioni esterne. Qualsiasi possibilità la vita possa negarci, rimane dentro di noi una mente inviolabile, sempre libera di reagire in un modo piuttosto che in un altro. Il divertimento è libertà.

Dundy, all’anagrafe Elaine Brimberg, nacque nel 1921, la seconda di tre figlie di una facoltosa famiglia di ebrei newyorkesi. Suo nonno, immigrato dalla Lettonia, inventò le viti autofilettanti, i cui bordi taglienti riuscivano a fendere il metallo (senza bisogno di un trapano!), e che vennero in seguito utilizzate per il motore dello Spirit of St. Louis e il restauro della Statua della Libertà. Sua figlia Florence, la madre di Dundy, fondò una scuola materna prima di sposare il padre di Dundy, il quale fece fortuna con l’industria tessile. Negli anni ’20 Manhattan scoppiava di soldi, dollari verdi e fitti come le foglie sugli alberi di Central Park, che Dundy e la sua famiglia vedevano dalle finestre del loro appartamento all’88 di Central Park West. Qui le governanti, i cuochi e gli chauffeur si occupavano dei bambini.

Durante gli anni della depressione il padre di Dundy perse la sua azienda. I Brimberg, ridotti ormai sul lastrico, si trasferirono brevemente a Long Island, finché un giorno il padre di Dundy acquistò una quota di maggioranza della Universal Steel e la famiglia riapprodò trionfalmente su Park Avenue. Le ragazze frequentarono la progressista Lincoln School di Harlem, dove Dundy apprese quello che chiamava «lo spensierato approccio della Lincoln al solenne, al pomposo e al sacerdotale». «Imparai la gioia del ridere molto, spesso senza motivo». Quando Dundy fece un pasticcio durante un’interrogazione, affermando che la piromania era un elemento chimico, le sue compagne di classe scoppiarono a ridere. Fu, ricorda Dundy, una bella risata: «invece di sentirmi umiliata, essere il motivo del loro divertimento mi rese felice».

Il piacere della risata era anche l’insegnamento che traeva dai film che vedeva durante i fine settimana. Proprio come l’approccio della Lincoln, le eroine delle screwball comedy erano «spensierate», e il loro divertimento diede forma e legittimazione al comportamento di Dundy. Era l’estate del 1939, l’età d’oro della commedia hollywoodiana. L’anno precedente erano usciti, per menzionarne solo alcuni, Susanna!, Incantesimo, L’eterna illusione, Il terzo delitto. L’anno successivo sarebbe stata la volta di La signora del venerdì, Le mie due mogli, e ovviamente Scandalo a Filadelfia. Scanzonata, ubriaca e ispirata dalle sue attrici preferite, Dundy si arrampicava fuori dai tettucci dei taxi, si spogliava fino alla vita e viaggiava così lungo la scintillante Park Avenue. Forse perché quegli anni erano, tanto quanto lei, «pervasi dallo spirito delle screwball comedy», nessuno, né gli uomini con cui usciva, né i tassisti, né i portieri, commentò mai questi viaggi in topless.

La storia fra Dundy e Kenneth Tynan, il padre di Tracy, nacque come quelle dei suoi film preferiti. Dopo l’università e una breve esperienza come crittografa per l’esercito, Dundy decise di cimentarsi nella carriera di attrice. Si trasferì a New York, dove frequentò la stessa scuola di Tony Curtis, poi a Parigi, quindi a Londra. A Londra conobbe Tynan, uno dei più celebri critici di teatro inglesi, e il primo uomo a dire fuck sulla BBC. Dundy gli disse che ammirava il suo libro e lui la invitò a pranzo. «Chi è?» le chiese un’amica. «Parte di una trama» rispose lei.

Al pranzo seguì una matinée, dalla matinée si passò allo champagne, e dallo champagne a una proposta di matrimonio, il tutto in un solo giorno. «Sono il figlio illegittimo del defunto Sir Peter Peacock» le disse Tynan. «Ho una rendita annuale, ventitré anni e sarò morto, o mi suiciderò quando ne avrò trenta, perché per allora avrò detto tutto quello che ho da dire. Vuoi sposarmi?». Dundy sulle prime esitò, ma in breve tempo la coppia andò a vivere insieme e pochi mesi dopo si sposò nel municipio di Marylebone. Come nel caso di Tracy e Dex in Scandalo a Filadelfia, il matrimonio di Dundy e Tynan ebbe molto risalto sui giornali.

Dall’esterno il loro matrimonio sembrava proprio come un film, caratterizzato da un’abbondanza di teatro inglese, viaggi a New York, corride con Hemingway, vacanze con Tennessee Williams, amici come Gore Vidal che condividevano lo stesso «patrimonio hollywoodiano». Una notte Ava Gardner si presentò al loro appartamento con un ombrello rotto, che aveva spaccato in testa al compagno. Questo per Dundy era l’archetipo dell’atteggiamento screwball.

L’idillio tuttavia non sarebbe durato. Il fulcro dell’insoddisfazione di Dundy era l’interesse di Tynan per il sadomasochismo, in particolare la fustigazione. («È ovvio che agli uomini inglesi piaccia la fustigazione» le disse Cyril Connolly «è il solo modo in cui da bambini vengono toccati».) Il suo strumento preferito era la canna, e se Dundy si rifiutava di sottomettersi, Tynan saliva sul davanzale della finestra, minacciando di gettarsi di sotto.

Altrettanto deleteria fu la reazione di Tynan al successo di Dundy come scrittrice. Era stato lui a consigliarle di scrivere un romanzo. Il libro divenne Il dolce frutto, la storia di Sally Jay Gorce, una ragazza americana nella Parigi del dopoguerra. Sally Jay vuole diventare un’attrice, e durante la sua ricerca del successo, o almeno di un antidoto alla noia, entra in contatto con i vari elementi della società parigina: ufficiali europei, artisti americani, ballerini travestiti, perfidi ladri di passaporti. Tynan le suggerì perfino il titolo, che Dundy adorava: per lei l’avocado rappresentava Sally Jay e tutto quello che di americano veniva esportato all’estero. Dopo aver letto la bozza, Tynan disse a Dundy che sarebbe stato un «best seller colossale».

Eppure quando la sua previsione si avverò ne fu sconvolto. Tornato a casa dopo una serata con gli amici, trovò Dundy che leggeva una copia del manoscritto. Furioso lo lanciò fuori dalla finestra. «L’orribile verità non era tanto che qualcuno l’avesse convinto che sua moglie l’aveva “sfidato” e “vinto”» scrisse Dundy «quanto che lui ci avesse creduto. Al di fuori delle screwball comedy, dove alle donne era consentita una parità in termini di lavoro e carriera, nella realtà ci veniva insegnato, con innumerevoli esempi, a non dare neanche lontanamente l’idea di voler competere con i nostri mariti». Tynan disse a Dundy che avrebbe chiesto il divorzio, se avesse scritto un altro libro. Il giorno dopo lei cominciò a lavorare su quello che sarebbe diventato il suo secondo romanzo, Un amore di ragazza.

Nonostante tutto non riuscivano a lasciarsi. Entrambi bevevano molto e avevano altre relazioni. Ogni volta che si separavano, Tynan implorava Dundy di tornare da lui, promettendole finalmente la pace, ma quando lei tornava le liti ricominciavano. Spesso è più facile odiare qualcuno che lasciarlo andare: lottare con qualcuno significa lottare per qualcuno, lottare per tenerlo nella propria vita. Il silenzio è peggio di un grido, specialmente per tipi teatrali come Dundy e Tynan, per cui il dialogo non era solo una passione ma una professione. La furia era un tentativo di salvare quello che rimaneva dell’amore.

Un amore di ragazza fu pubblicato nel 1964, l’anno in cui Dundy e Tynan divorziarono. Dundy si trasferì a New York, dove assumeva grandi dosi di Ritalin durante il giorno e di Seconal la notte. Nel 1968 entrò per la prima volta in riabilitazione. Qualche anno più tardi si svegliò in un ospedale di Londra, con un prete accanto che le amministrava l’estrema unzione. Tornò a Manhattan e redisse un testamento.

Poco dopo il suo rientro a New York tuttavia cominciò a migliorare, attribuendo il fatto alla terapia con elettroshock. Iniziò a scrivere il suo primo saggio, una biografia di Peter Finch. Durante gli anni ’80, mentre lavorava a un libro su Elvis e sua madre, scoprì che preferiva «essere educata al fare esperienza» dal momento che le esperienze possono ripetersi, ma esistono sempre nuovi modi per interpretarle.

Nel 1986 si trasferì in California, per stare più vicina a sua figlia e per «i meravigliosi ricordi di Hollywood» che serbava. Pubblicò la sua autobiografia, Life Itself!, nel 2001, quattro anni dopo la riedizione di Il dolce frutto e sette anni prima della morte. Dundy concluse la storia della sua vita con l’immagine di un tramonto autunnale che «ce la mette davvero tutta». «Partecipo del suo entusiasmo» scrisse «e sono appagata».

Dundy affermò, nella sua autobiografia e nelle note di prefazione, che intendeva i suoi romanzi come una risposta a un gruppo di autori conosciuti come «Angry Young Men» (Giovani arrabbiati) e ai loro spavaldi antieroi che sfidavano la tradizione. Nessuno, credeva, aveva ancora rappresentato «la complessità e le contraddizioni delle ragazze contemporanee», quindi presentò al mondo la sua «Angry Young Woman», la ragazza americana ostinata e ambiziosa. Le sue protagoniste sono laureate, scrivono su riviste o lavorano nel teatro, e vogliono fama o denaro. Passano notti selvagge e hanno postumi da sbornia terribili come quelli di Jim Dixon. «Non mi piacciono i libri che parlano solo di ragazzi» si lamenta Rilla Blackman in The Injured Party, il suo terzo e ultimo romanzo. Di certo avrebbe apprezzato i libri di Dundy.

Per rappresentare ciò che la giovane arrabbiata pensava, Dundy si concentrò su come pensava. I suoi personaggi amano il gergo colloquiale e le stesure originali dei suoi romanzi sono piene di intercalari come oh, ehm e be’, la maggior parte dei quali vennero tagliati nelle edizioni successive. Quello che resta è indispensabile, perché la forza di Dundy è nella voce, intesa nel modo più letterale possibile in rapporto alla scrittura. Lo stile è informale, le frasi spesso si rotolano addosso o si fermano all’improvviso, e i personaggi che le pronunciano pensano nello stesso modo in cui parlano. È il modo di parlare della prima generazione cresciuta con i film sonori e ricorda in particolare i dialoghi serrati e irregolari della screwball comedy; la prima generazione che, consciamente o meno, cercò di emulare il modo di parlare dei protagonisti dei film, le prime ragazze per cui la celebrità era legata al dialogo, specificamente all’arguzia. «Era senza dubbio la donna dall’aspetto più d’impatto nella stanza. Intendo d’impatto come Garbo, come Hepburn», grande complimento, da parte di una delle eroine di Dundy.

Parte dell’ambizione della giovane arrabbiata è di natura sessuale; è libera, infatti, nel parlare e nella ricerca del piacere fisico. L’editore di Dundy ebbe da ridire riguardo alla descrizione dell’orgasmo di Sally Jay, ma le recenti riedizioni l’hanno riportata alla sua originaria, gloriosa oggettività: «Voglio dire, sono venuta» dice Sally Jay. Mentre gli anni ’50 lasciavano spazio ai ’60 e ai ’70, lo stile di Dundy divenne sempre più diretto «Quando finimmo eravamo coperti, assolutamente coperti l’uno dell’altro» si vanta Betsy Lou Saegessor dopo essere stata a letto col vecchio in Un amore di ragazza. Spedita invece in un carcere femminile dopo la morte del marito, Rilla fa sesso prima con una delle altre carcerate, poi col direttore.

Nonostante Sally Jay finisca per sposarsi, la maggior parte dei romanzi di Dundy sovverte la tradizionale struttura della commedia, in cui un matrimonio nell’atto finale segna il ritorno alla normalità e la fine del disordine individuale e sociale. Il disordine è, naturalmente, ciò che desidera Sally Jay, e ciò che la disturba è che nessuno la capisca: «Tutti mi dicono di smettere di andare alla deriva e di cominciare a vivere. Mi dicono di cominciare a cucinare e cucire e pulire e non so cos’altro. Prendermi cura dei miei nipoti». Il matrimonio, nello spirito della screwball, è una nuova avventura, specialmente quando significa un viaggio in Giappone.

Per lo più comunque, il matrimonio è presentato come un mezzo per ottenere denaro, o una prigione da cui fuggire: Rita uccide il marito, per quanto involontariamente, e Betsy Lou tenta di uccidere il suo amante, C.D. McKee, famoso scrittore britannico. McKee è anche il secondo marito della matrigna di Betsy Lou, Pauly, che alla sua morte ha ereditato la fortuna del padre di Betsy Lou. In seguito alla morte di Pauly, il patrimonio passa a C.D., Betsy Lou vuole i suoi soldi, ergo C.D. deve morire. Nel corso della storia si viene poi a sapere che da bambina Betsy Lou aveva provato, invano, a rovinare il matrimonio tra il padre e Pauly, e che all’università aveva sedotto il fidanzato della sua migliore amica. E ciononostante il lettore ne è affascinato. Il suo è un fascino cupo, forse, ma divertente, e fa breccia su coloro che permettono all’umorismo di emergere in qualsiasi situazione, sano o perverso che sia. La scrittrice Dawn Powell (definita da Gore Vidal, insieme a Dundy, l’autrice più divertente) era tra le sue fan: sembra che Un amore di ragazza, scrisse, «non sia stato scritto, ma piuttosto stillato come sangue sulla pagina. Una commedia mortale».

I critici hanno individuato in Dundy la madre della chick lit, ma leggendo i suoi romanzi risulta chiaro che al massimo possa esserne la matrigna cattiva. Non è solo il modo in cui tratta il matrimonio a distinguerla, ma il modo stesso in cui concepisce il «trattare» qualcosa in letteratura. La stessa Dundy riconobbe che la Bridget Jones di Helen Fielding condivideva con i suoi personaggi «un amore per l’avventura» e una tendenza ad attrarre un guaio dopo l’altro. «1, 2, 3, 4,» disse «picaresco, direi». Ad ogni modo, Dundy non riconobbe mai Bridget come l’erede di Sally Jay; il problema era rappresentato proprio dai guai di cui sopra: a differenza dei lavori di Dundy, buona parte della chick lit non è costituita che dalla trama. Se di commedia si vuol parlare, tralasciando per un attimo il canonico utilizzo del matrimonio come soluzione pacificante, allora che si parli di sitcom, genere che fa leva sul ridicolo (Bridget in un costume da coniglio) o sulla compassione (Bridget con i postumi di una sbronza e col cuore spezzato che mangia muesli dalla scatola). Nella chick lit l’umorismo scaturisce dagli eventi, in Dundy a dispetto di questi. Ciò che conta nei lavori di Dundy è la reazione dei personaggi agli eventi, e il modo pietoso, turpe e ferocemente divertente in cui esprimono le loro reazioni. Quando, alla fine di Un amore di ragazza, si scopre che C.D. non ha avuto un infarto, Betsy Lou ride, «Poveri idioti, quali incubi gotici avevamo evocato?», dicendogli che non è stata neanche in grado di uccidere un vecchio in punto di morte. Lui ride di rimando: «Non importa» risponde «almeno mi hai fatto ammalare gravemente».

Fu dopo la pubblicazione di Un amore di ragazza che Hollywood riconobbe Dundy per la diligente allieva che era: George Cukor, regista di Scandalo a Filadelfia, voleva adattare il romanzo per lo schermo, ma perse il progetto quando il copione fu venduto alla MGM, dove il produttore era A. Ronald Lubin. Un anno dopo Dundy incontrò Lubin e Cary Grant in una stanza al Plaza Hotel. Grant, appena uscito dalla doccia e con indosso solo un asciugamano, disse a Dundy che l’LSD era meno pericoloso delle sigarette, e che voleva il ruolo di McKee. La settimana seguente Grant rimase ferito in un incidente d’auto. Il film non fu mai girato.

Gore Vidal definì Il dolce frutto «la vendetta di Daisy Miller» e da molti punti di vista, le ragazze appartenenti all’élite americana di Dundy, a spasso per le antiche capitali europee, sono delle moderne Daisy e Isabel Archer, e i punti di contatto vanno oltre la struttura o l’ambientazione. Daisy Miller di James, pubblicato esattamente ottanta anni prima di Il dolce frutto, è la storia di una ragazza newyorkese giunta in Europa per la prima volta, accompagnata dal fratello e dalla madre permissiva. Durante il loro primo incontro in Svizzera, Daisy dice a Winterbourne, un americano che ha vissuto a lungo all’estero, che non era mai stata in così tanti alberghi in vita sua, prima di venire in Europa: «Non ne ho mai visti così tanti… ci sono soltanto alberghi». Ma, James continua, «la signorina Miller non fece questa osservazione con accento querulo; sembrava contentissima di tutto».

A Roma questo suo modo di percepire il mondo offende altri americani. Avvertita che si sparlerà di lei, se andrà in carrozza con un uomo italiano, senza accompagnatore, Daisy ride. Non capisce perché un giro in carrozza dovrebbe essere motivo di scandalo, e non vuole neanche saperlo: «Non credo mi piacerebbe». Dopo la morte di Daisy, Winterbourne dice a sua zia che «gli rimordeva la coscienza per averle fatto un’ingiustizia», perché «avrebbe apprezzato la stima del prossimo». L’innocenza, James suggerisce, non dipende dall’azione quanto dall’atteggiamento. Daisy soffre non per quello che fa, ma perché il suo sentire, in relazione alle sue azioni, è diverso da quello degli altri.

L’accresciuta libertà economica e sessuale di cui godono le eroine di Dundy ne garantisce una ulteriore: la libertà di essere «contentissime di tutto». L’atteggiamento di Daisy nei confronti del mondo è ora ammissibile. Il dolce frutto si apre così: «Era un giorno di settembre caldo, tranquillo, ottimista» ricordando il tramonto di Life Itself!, e in questo romanzo non è un rischio attribuire la causa del proprio ottimismo al mondo intero. Sally Jay è libera di soddisfare la sua curiosità, curiosità che, dice, è «la risposta alla domanda su quale sia la mia più forte emozione, se mai volessi chiedermelo».

La risata non conduce più alla tomba, ma è piuttosto un modo di vivere il mondo, che Dundy apprese dalla «bella risata» della Lincoln School e dal cinema. «L’atteggiamento della screwball comedy» scrive «è quello che identificai come la reazione giusta ad ogni avvenimento della mia vita». Quella della screwball è una «reazione» alle nostre esperienze, una posizione che possiamo scegliere di assumere o meno. Per Dundy e i suoi personaggi la comicità risiede, non negli eventi, ma nella nostra risposta a essi, e quindi la definizione di qualcosa come drammatico o comico è una questione di atteggiamento e di libertà personale. La commedia non dipende dal verificarsi di eventi casuali, ma da scelte che devono essere compiute liberamente e ripetutamente: è un esercizio costante della volontà, dell’anima eliotropica.

In Pursuits of Happiness: The Hollywood Comedy of Remarriage, uno studio su sette screwball comedy degli anni ’30 e ’40, il filosofo Stanley Cavell fornisce una definizione del genere che ben si adatta anche ai lavori di Dundy:

«Ho avuto occasione, parlando della carriera di Otello, di invocare l’orrore e la fascinazione di Montaigne, per il terrore dell’essere umano nei confronti di se stesso. Sarebbe a dire: la vita è dura, non rendiamola più dura decidendo tragicamente di definirla tragica, dal momento che siamo liberi di fare diversamente. Credo che l’alternativa di Montaigne all’orrore sia il raggiungimento di quella che chiama una saggezza gaia e cordiale.

Interpreto questa gaiezza come l’atteggiamento da cui dipende quella che sto chiamando commedia diurna, un atteggiamento verso la vita umana che definisco, come ho appreso principalmente da Thoreau e in parte da Kierkegaard, l’interesse per essa. La tragedia è la necessità di fare le proprie esperienze e trarne degli insegnamenti; la commedia è la possibilità di farlo divertendosi».

In questo consiste la «curiosità» di Sally Jay e la dichiarazione di Dundy secondo cui «scegliendo la frivolezza, stavo semplicemente seguendo la tradizione di famiglia invenzione del sé». Nei romanzi di Dundy e nelle sue adorate screwball comedy, quello che conta non è «la ricezione di una nuova esperienza», come scrive Cavell, «ma una ricezione nuova della propria esperienza, un’accettazione dell’autorità come propria».

È liberatorio essere padroni del proprio destino, ma rappresenta allo stesso tempo un fardello: dobbiamo imparare a fidarci di noi stessi e a essere degni di tale fiducia. Il ribollente ottimismo di Dundy poteva sfociare nella delusione, una specie di pigra non-curiosità: si cessa di mettere alla prova il proprio giudizio e si agisce per automatismi. Una reazione automatica è probabilmente il motivo per cui la relazione tra Dundy e Tynan si trascinò così a lungo. Richiamando la descrizione della furia di Tynan in seguito alla pubblicazione de Il dolce frutto, ricordiamo che il fatto che l’uomo credesse che la sua rabbia fosse giustificata era, con le parole di Dundy, «l’orribile verità». L’orribile verità è anche il titolo dell’acclamata commedia di Leo McCarey del 1937, in cui figurano Cary Grant e Irene Dunne nel ruolo di due sposi che attendono che il loro divorzio diventi definitivo. Secondo l’interpretazione di Cavell, «l’orribile verità» che Dunne comprende, è che solo con il suo ex marito può vivere una vita di risate.

Non che le lezioni impartite dai film non possano essere applicate alla vita vera, al contrario. Onorare l’autorità delle proprie esperienze significa onorare le proprie esperienze di questi film e della letteratura. Ma questa saggezza non può essere applicata in maniera casuale, coadiuvata esclusivamente dalla speranza: non tutti i divorzi dovrebbero concludersi con delle nuove nozze, e ci sono persone con cui non si può condividere per sempre una «bella risata». L’orribile verità è che la vita non è L’orribile verità.

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Elizabeth Gumport scrive per New York Observer e This Recording. Vive a New York.

Titolo originale: Laughing a Lot, and Often Over Nothing Much © Elizabeth Gumport, 2010, all rights reserved
Traduzione di Umberto Manuini
Fotografia © Mariateresa Pazienza