«Quando scrivo non credo di interpretare nessuno, perché il personaggio di uno scrittore è se stesso. Non lo considero alla stregua di interpretare un ruolo. È semplicemente un comparire dinanzi a un pubblico».
Questa intervista è apparsa in esclusiva sul sito web di The Believer, febbraio 2012
Luoghi in cui andare:
posti oscuri o difficili
a casa
sott’acqua
Un giovedì di dicembre 2011, a mezzogiorno, ho parlato al telefono con Joan Didion. Si trovava in un albergo di Washington. La donna alla reception mi aveva accolta così: «Chi è che cerca? Bibion? B come bambino?». «No, d come dito» risposi, a disagio. «Dito, i, dito, i, o, n». Non mi piaceva l’idea di dover fare lo spelling di un cognome tanto famoso come quello della Didion, ma non volevo certo parlare con Joan «Bibion».
La Knopf ci aveva concesso mezz’ora di intervista. La Didion era in tour a presentare il suo ultimo libro, il memoir Blue nights. Aveva un evento in una libreria quel pomeriggio.
Me la immaginavo seduta sul bordo di un letto rifatto con cura. Me la immaginavo aprire la porta della stanza a un altro giornalista pochi istanti dopo aver finito con me. O magari chissà, aveva tempo di passeggiare per Washington, prendersi qualche ora per sé.
Nelle ultime due settimane non avevo letto altro che lei: i suoi romanzi, i suoi saggi e Blue nights, che aveva scritto dopo la morte della figlia per complicazioni dovute a una brutta influenza – un libro che parla dell’invecchiamento, della perdita, di essere madre. Ovviamente avevo letto anche il suo libro precedente, L’anno del pensiero magico, che parla della morte del marito, lo scrittore John Gregory Dunne. Quel libro aveva riportato Joan Didion alla ribalta nel mondo letterario americano, un mondo in cui era stata una figura importantissima sin dai suoi primi lavori, negli anni Sessanta.
È nata nel 1934 e ha scritto come nessun altro sulla California (dove la sua famiglia vive da generazioni) e sui profondi cambiamenti dell’America degli anni Sessanta e Settanta, sulle campagne politiche e su cosa significhi essere una persona, abitare in questo mondo. Nel suo famoso saggio «Sul rispetto di sé», scrive: «Se non rispettiamo noi stessi, da una parte siamo costretti a disprezzare chi cade tanto in basso da frequentarci, chi è dotato di così poca percezione e resta cieco dinanzi alle nostre fatali debolezze. Dall’altro lato siamo sempre alla mercé del prossimo, curiosamente determinati a incarnare – dato che l’immagine che abbiamo di noi stessi è indifendibile – la loro falsa nozione di noi… Interpretiamo dei ruoli con cui siamo destinati a fallire prima ancora di cominciare, e ogni sconfitta genera nuova disperazione dinanzi alla necessità di indovinare e soddisfare le aspettative che hanno di noi le persone che incontriamo».
Ho citato questo passaggio solo per dire che non avevo affatto la sensazione di parlare con una persona alla mercé del prossimo. Joan Didion non incarna alcuna falsa nozione che si possa avere di lei. Non è falsa. La voce che mi parlava al telefono era quella di una persona sensibilissima, che a ogni frase sembrava mostrare sentimenti e percezioni profonde, oltre alla voglia di non esagerare né sminuire la verità; una persona rigorosa, ma tuttavia estremamente a proprio agio.
– Sheila Heti
I. ESIBIZIONE
THE BELIEVER: Vorrei cominciare con una frase che ha detto al Paris Review. Da piccola voleva fare l’attrice, non la scrittrice, giusto?
JOAN DIDION: Giusto.
BLVR: Ma ha accettato di scrivere, perché in qualche modo scrivere è a sua volta una performance. Quando scrive si esibisce, ha un suo personaggio?
JD: Non ho un personaggio ma mi esibisco, faccio la mia performance. In qualche modo la scrittura ha sempre avuto in sé un elemento spettacolare.
BLVR: Qual è la natura di tale performance? Voglio dire, un attore interpreta un personaggio…
JD: A volte è così, ma altre si esibisce e basta. Quando scrivo non credo di interpretare nessuno, perché il personaggio di uno scrittore è se stesso. Non lo considero alla stregua di interpretare un ruolo. È semplicemente un comparire dinanzi a un pubblico.
BLVR: Apparire dinanzi a un pubblico e pronunciare delle battute, più o meno…
JD: Ma non quelle scritte da altri. Le tue. Uno scrittore dice: «Guardatemi, questa sono io».
BLVR: E ritiene che questo «io» sia una figura stabile, o no? Rimane sempre costante durante la carriera di uno scrittore?
JD: Credo che lo diventi nel corso del tempo. All’inizio non lo è granché. Ma poi dopo un po’ maturi, e il ruolo che ti sei creata ti calza alla perfezione.
BLVR: Come valuta però la distanza tra il ruolo che ci si crea per se stessi…
JD: … e la persona vera?
BLVR: Già.
JD: Be’, non saprei. Probabilmente la persona vera diventa essa stessa il ruolo che si è creata.
BLVR: E questa persona si esibisce per se stessa o per gli altri?
JD: Per quanto mi riguarda, io mi esibisco per me stessa. Ma ovviamente sono coinvolte anche altre persone. Il mio pubblico sono i lettori, è chiaro.
BLVR: Quanto del suo lavoro nasce in collaborazione con un pubblico, o in reazione a esso?
JD: Oh, parecchio. Ho scritto una commedia ispirata a L’anno del pensiero magico, e sono rimasta colpita da come il pubblico è diventato parte della commedia stessa, in teatro. È entrato a far parte di ciò che succedeva sul palco. Credo che valga la stessa cosa anche quando scrivi.
BLVR: Ma nel caso della scrittura, il lettore è più come ci si immagina che sia, una sorta di proiezione di quello che uno pensa sia il lettore…
JD: Be’, non proprio. O meglio, sì, è per forza così perché il lettore non è fisicamente lì quando scrivi, come invece lo è il pubblico in teatro. Ma credo sia più una collaborazione vera e propria.
BLVR: E che cosa fa il lettore in questa collaborazione?
JD: La stessa cosa che fa il pubblico per un attore. Non mi ci vedrei proprio a scrivere, se non avessi dei lettori. Proprio come un attore non si immagina a recitare senza un pubblico.
BLVR: Sono nati praticamente nello stesso momento, la scrittura e l’idea del lettore.
JD: Sì, la scrittura non esiste nel vuoto. Un vuoto che ti creeresti se non fossi consapevole della presenza del lettore.
II. INIZIARE A SCRIVERE
BLVR: Si ricorda di quando ha iniziato a scrivere?
JD: Ero una bambina. Avevo quattro, cinque anni, e mia madre mi regalò una grande lavagna nera perché continuavo a lamentarmi, a dire che mi annoiavo. Mi disse: «Allora scrivi qualcosa. Così puoi leggertela». Avevo appena imparato a leggere, perciò per me fu un momento emozionante. L’idea di poter scrivere qualcosa… e di poterla anche leggere!
BLVR: Le è piaciuto leggere quello che scriveva?
JD: Nel corso degli anni sì. Non sempre, però.
BLVR: Come descriverebbe il piacere che si prova a leggere qualcosa che hai scritto tu, quando è buono?
JD: Be’, è un piacere profondo, ma solo se e quando ti piace quello che hai scritto. Se non ti piace, be’, la sensazione non è altrettanto benefica.
BLVR: Crede di essersi distaccata da un particolare periodo della sua carriera?
JD: Non mi sono mai sentita troppo affine al mio primo romanzo, perché semplicemente non sapevo come si scriveva, non sapevo come mettere per iscritto quello che avevo in testa. Volevo creare un’opera con l’ordine cronologico mescolato, ma non avevo abbastanza esperienza per farlo bene, perciò alla fine ho seguito il consiglio dell’editor e ho lasciato perdere quell’idea. Il risultato è stato un romanzo molto convenzionale, e non mi ha fatto piacere rileggerlo.
BLVR: Il libro non rappresentava la sua visione delle cose?
JD: No, anzi, era proprio l’opposto.
III. ACQUISIRE FIDUCIA
BLVR: In passato ha dichiarato di non avere un forte senso della realtà. È stata criticata parecchio come giornalista, e magari ha dato ai lettori la sensazione che quello della giornalista non fosse il suo mestiere. Eppure quei pezzi che ha scritto quando faceva la giornalista, sia all’inizio della carriera sia più avanti, sono forti, bellissimi. Quando riguarda i suoi saggi, ha la sensazione che siano stati scritti da una persona che comprendeva la realtà o no?
JD: Da una persona che comprendeva la realtà, credo. Ma anche da qualcun altro. Non lo so, è delicato – non delicato, difficile separare quelle due persone.
BLVR: Immagino che sia difficile scrivere non-fiction, perché bisogna avere la forza necessaria per dire «Il mondo è questo». Come si fa a disporre dell’autorità che serve per dire «Conosco abbastanza il mondo e ne ho viste a sufficienza, ora posso trarre le mie conclusioni»?
JD: Be’, questo tipo di fiducia va acquisito. Il che fa parte di un percorso che dura un’intera carriera. Piano piano diventi più sicuro di avere… So che sembra ridicolo, ma diventi più sicuro di avere le risposte.
BLVR: Si ricorda in che momento…
JD: … ho acquisito tale fiducia? Mi è successo piuttosto tardi, quando ho iniziato ad avere i primi feedback dal pubblico. No, a ripensarci non è successo tardi, ma anzi direi che ho ricevuto le prime reazioni dal pubblico abbastanza presto. [ride] Altrimenti non avrei avuto il coraggio di andare avanti.
BLVR: E a che punto era? A che libro?
JD: Direi che è successo all’incirca quando è uscito Prendila così. Che cos’era, il mio terzo libro? Ricordo che quando Prendila così stava per uscire mio marito diceva: «No, no… non ce la farà mai… tu non ce la farai mai. Con questo libro non avrai successo». Il bello è che lo pensavo anch’io. E all’improvviso, invece, un po’ di successo l’ha avuto. Da quel momento in avanti ho avuto più fiducia in me stessa.
BLVR: Perché credevate entrambi che non avrebbe avuto successo?
JD: Perché era il mio terzo libro e i miei due precedenti erano stati dei flop. E questo tu non lo prendi mica in considerazione – non è che ragioni pensando che all’improvviso ce la farai. Credi di avere talento, di mostrare quel talento indipendentemente da ciò che scrivi, e se già due volte non sei riuscita ad arrivare al pubblico, non è che alla terza all’improvviso sei consapevole che arriverà il successo che speravi.
BLVR: Prendila così è un romanzo, ma la fiducia che le ha dato si è trasferita anche su altri generi letterari.
JD: Sì. I miei articoli e i miei reportage piano piano hanno iniziato ad attirare l’attenzione, perciò mi chiedevano di farne altri. È solo gradualmente che si conquista quella fiducia. Ma lei lo sa, ci è già passata.
BLVR: Sì, è graduale, è vero. Mi è rimasta in testa la frase di suo marito, che ha detto «Con questo libro non avrai successo». Ha ferito i suoi sentimenti, oppure era soltanto il suo modo per…
JD: No, non mi ha ferita, no. È stata un’affermazione realistica. E io ero senz’altro d’accordo.
BLVR: Com’è che si è accorta che quella volta il pubblico aveva apprezzato?
JD: Non me lo ricordo con precisione, ma all’improvviso la gente parlava di quel libro. Non è che fosse sulla bocca di tutti, ma di certo se ne parlava ed era una sensazione che non avevo mai provato prima.
BLVR: Ha cambiato il suo rapporto con il libro? L’ha portata, che so, a prendere le distanze da esso?
JD: No, non mi ha fatto prendere le distanze, no. Mi ha fatto sentire bene. Anzi, mi ci ha fatto sentire più vicina. Ero molto infelice mentre lo scrivevo, perché per me era davvero dura parlare di quelle cose, e mi sono accorta di essere depressa soltanto dopo averlo finito. Poi l’ho finito e di colpo è stato come se mi avessero tolto dalla testa un peso enorme, capito? All’improvviso ero una persona felice.
BLVR: A me succede sempre, ho un certo tipo di atteggiamento nei confronti del mondo, mentre scrivo un libro…
JD: Esatto. In un certo senso, fai tuo l’umore che si respira nel libro.
BLVR: È difficile trovare un libro che si possa scrivere in sicurezza. Perché si tende sempre ad andare in luoghi oscuri o difficili.
JD: Proprio così. E a volte in quei luoghi non ci vuoi assolutamente andare.
BLVR: Ma dove si può andare, in fondo? Sono gli unici posti in cui valga la pena andare, alla fine. Giusto?
JD: Giusto.
IV. LE «RELAZIONI» DI WOODY ALLEN
BLVR: Negli anni Settanta ha scritto un affascinante articolo sui film di Woody Allen, pubblicato sul New York Review of Books. Nell’articolo inserisce spesso la parola «relazioni» tra virgolette…
JD: Credo di averlo fatto perché parlava spesso di «relazioni», appunto.
BLVR: Ma come ha scelto di mettere la parola dentro o fuori dalle virgolette? Leggendo l’articolo ho avuto la sensazione che, a suo parere, l’idea delle «relazioni» fosse stata inventata dalla cultura moderna.
JD: Non è così. Solo non mi è sembrato molto onesto e limpido il modo in cui Woody Allen, all’epoca, utilizzava le relazioni tra le persone.
BLVR: In che senso?
JD: Nel senso che nei suoi film la gente parlava di relazioni e, be’, accadeva soltanto quello. Non mi sembrava plausibile.
BLVR: L’articolo di cui parliamo è molto interessante, perché i film di Woody Allen sono stati i primi che ho visto. Mio padre è un suo grande ammiratore e a me sembravano molto realistici, plausibili, era la prima volta che vedevo rappresentata la vita degli adulti. Io e Annie e Manhattan li avrò visti un centinaio di volte, da piccola. Perciò leggere il suo articolo è stata una bella botta, e ho pensato, Ah, è soltanto l’interpretazione artistica della vita fatta da una persona, non è per forza…
JD: … non è per forza l’essenza della vita stessa.
BLVR: Già, non è un documentario. Pensa che nel frattempo la cultura si sia mossa di più in quella direzione?
JD: Be’, dopo sì, in effetti. È diventato un modo accettabile di guardare il mondo.
BLVR: Un qualcosa di transitorio a proposito delle relazioni umane?
JD: Già.
V. IMPEGNO ESTREMO O DESTINATO AL FALLIMENTO
BLVR: Voglio farle una domanda sull’idea dell’«impegno estremo o destinato al fallimento». In The White Album dice: «Sono approdata all’età adulta equipaggiata di un’etica essenzialmente romantica», e crede che «la salvezza risieda nell’impegno estremo o destinato al fallimento».
JD: Sì.
BLVR: Mi chiedo se si riferisse al matrimonio o alla maternità, o magari alla scrittura…
JD: Consideravo matrimonio e maternità impegni estremi e destinati al fallimento, sì. Non perché ne abbia esperienza personale, ma perché era il mio modo di vederli.
BLVR: E ora che ha vissuto entrambi, li considera ancora allo stesso modo?
JD: No. Li considero… be’, per me hanno rappresentato la salvezza.
BLVR: La salvezza da che cosa?
JD: Dalla solitudine.
BLVR: Per via del fatto che la sua relazione è tanto intima, o grazie al matrimonio in sé e per sé?
JD: Avere accanto un’altra persona, tenerne conto, era molto… Era una novità, per me, e si è rivelata una bellissima cosa.
VI. NIENTE STORIA
BLVR: La frammentazione di Blue nights mi ha fatto pensare al suo saggio «Verso Betlemme», in cui parla del fatto che quei bambini sono come sono perché non hanno né zie né zii…
JD: Esatto.
BLVR: Quindi, come essere umano e come scrittrice, mi sono chiesta se, non avendo intorno le stesse persone – non solo famigliari ma anche amici, e perfino i punti di riferimento di una città in cui si è vissuto per tanti anni, perché le città cambiano – non si cominci a sentirsi più frammentati, più… atomizzati, in qualche modo?
JD: Penso proprio di sì. Poi bisogna imparare a fare i conti con questa cosa. In parte è quello che ho fatto in quel libro. Era uno scritto molto personale. Non perché parli di cose tratte dalla mia vita personale, ma perché ho dovuto fare i conti con la mia incapacità di trovare la storia.
BLVR: Come ci si sente a scrivere un libro che non ha una vera e propria storia?
JD: Non è mai una bella sensazione, ma ho deciso che devo farmene una ragione, anche perché il mio atteggiamento all’epoca nei confronti della scrittura non era molto incoraggiante. [Ride]
BLVR: Per scrivere qualcosa di frammentato, senza una vera storia, bisogna pensare in maniera diversa?
JD: Assolutamente sì. Perché quello che di solito fanno gli scrittori è individuare una storia da raccontare. E molti dei pezzi che ho scritto negli ultimi dieci anni circa mi hanno costretto a farlo. Nel caso di quel saggio è successo l’opposto. È partito dalla consapevolezza che una storia non c’era, e che non aveva alcuna importanza.
BLVR: E quindi dove sta l’intensità del pensiero, se non nel trovare una storia da raccontare?
JD: Immagino che stia proprio nell’idea che la storia non ha importanza.
BLVR: Quest’idea le sembra più reale che quella che la spinge a trovare una storia? È una verità più profonda?
JD: Al momento direi di sì. O almeno, è quello che ho capito nel corso degli anni.
BLVR: Pensa che, se non avesse scritto quel saggio, questa verità sarebbe rimasta incompiuta, abbozzata dentro di lei?
JD: Sì. Per me scrivere è sempre un modo di arrivare a una certa consapevolezza che, altrimenti, non potrei mai raggiungere.
BLVR: Come pensa che possa la scrittura portare una persona alla consapevolezza di qualcosa?
JD: Intende dire, come fa a portare una persona a capire cose che non potrebbe capire altrimenti?
BLVR: Sì.
JD: Ti costringe a pensare. Ti costringe ad approfondire. Non è che le cose ci vengano così, dal nulla, con facilità. Perciò se vuoi capire davvero quelli che sono i tuoi pensieri, devi lavorarci su. E l’unico modo per lavorarci su, per me, è metterli per iscritto.
BLVR: Immagino che per lei sia così da tutta la vita.
JD: Immagina bene.
VII. DOPO NATALE
BLVR: In quello che scriverà fra un po’ o quello che sta scrivendo, c’è…
JD: Al momento non sto scrivendo, in realtà. Vorrei. In ogni caso è come se fossi costretta a farlo, scriverò un paio di articoli, ma non riesco a concentrarmi troppo a lungo. A primavera proverò a concentrarmi di nuovo su qualcosa.
BLVR: Sta lavorando a qualche lavoro su commissione o è un’idea sua?
JD: Alla fine sono tutte idee nostre, no? Tutto è iniziato da un suggerimento da parte di un editor, ma parte del processo consisterà nel provare a tradurre quella suggestione in un prodotto mio.
BLVR: Le sembra di fare una vita diversa, quando non lavora a qualcosa?
JD: Molto, molto diversa. E non mi piace.
BLVR: Per me è una vita… non lo so, direi molliccia.
JD: Molliccia, slegata dal mondo esterno, sì. Non vedo l’ora di tornare a casa. Domani sarò di nuovo in treno, e la prossima settimana devo andare in California, a casa. Il momento in cui la mia vita tornerà alla normalità, be’, arriverà solo dopo Natale.
BLVR: Quindi al momento non vede l’ora che arrivi Natale?
JD: Sono concentrata su Dopo il Natale. Eccola, la mia storia. [Ride]
BLVR: Così, quando le acque si saranno un po’ calmate, si rimetterà a sedere alla scrivania e ricomincerà a lavorare.
JD: Alla scrivania, sì. Nello stesso posto ogni giorno.
BLVR: Questo per lei è vivere più intensamente?
JD: Assolutamente sì.
VIII. TROVARE IL RITMO
BLVR: Quand’è che ha la sensazione di scrivere al meglio delle sue possibilità?
JD: Quando trovo il ritmo.
BLVR: Quando scrive le capita mai di pensare che in quel momento sta solo evitando di scrivere?
JD: Ma certo che mi capita. Immagino che una cosa del genere capiti a tutti gli scrittori.
BLVR: E qual è la natura di quell’evasione? Non pensare?
JD: Non pensare, esatto. Non pensare.
IX. UN’ESISTENZA DI VITA MAGICA
BLVR: Il suo libro precedente l’ha chiamato L’anno del pensiero magico, e nel suo saggio «Viaggio sentimentale» dice che i newyorchesi si affidano a determinati «gesti magici» che a loro parere possono influire sul loro destino. Mi chiedo se ha idea di che cosa ci renda tanto superstiziosi. È una questione di speranza, o sentiamo di non avere il controllo su nulla? Perché siamo creature così profondamente superstiziose? Non ce la possiamo fare.
JD: No, infatti. Credo solo che faccia parte del modo in cui siamo programmati.
BLVR: Che cosa crede che comporti questo, per noi?
JD: Penso che ci dia una storia da raccontare. A quanto pare non c’è via d’uscita, una storia ci serve sempre. E quando non se ne trovano è molto triste.
BLVR: Se riguarda la sua vita, la sua storia è la stessa che ha messo nei suoi libri?
JD: Direi proprio di sì.
X. IL FONDO DEL MARE
BLVR: Crede che se non fosse diventata scrittrice avrebbe potuto fare un lavoro completamente diverso?
JD: Oh, me lo chiedo spesso. In realtà volevo diventare oceanografa. Dopo le superiori, quando vivevo a New York e lavoravo per una rivista, sono andata allo Scripps Institute – che oggi è la UC San Diego ma che all’epoca era soltanto lo Scripps Institution of Oceanography – a chiedere cosa dovevo fare per diventare oceanografa. Mi hanno detto che avrei dovuto tornare al liceo, sostanzialmente. Non avevo seguito nessuno dei corsi di scienza propedeutici per gli altri corsi di scienza necessari a entrare nell’istituto. Perciò ho abbandonato l’idea di diventare oceanografa, anche se mi ci vedo ancora a fare quel lavoro.
BLVR: Le sembra una vita più felice?
JD: Più felice? Non saprei. Mi è piaciuto fare la scrittrice.
BLVR: È solo un modo diverso di andare sott’acqua.
JD: Sì, mi piace come immagine. E mi ha sempre intrigato l’idea di scoprire quanto è profondo il mare, se capisce cosa intendo.
*
Sheila Heti è redattore capo per le interviste di The Believer. Il suo nuovo libro, La persona ideale, come dovrebbe essere?, è uscito in Italia nel 2013.
Titolo originale Joan Didion @ Joan Didion, Sheila Heti, 2012, all rights reserved