IN CUI SI PARLA DI: verbi fisici, produzione di tempo fasullo, sabbie mobili letterarie, inerzia, David Markson, il saggio lirico, Anne Carson, diari noiosissimi, sfrontate narrativizzazioni, John D’Agata, Joy Williams, David Foster Wallace, picchi di narrativa.
Scrittori, prendete nota: oggi molta della migliore narrativa è scritta sotto forma di non-fiction
Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, luglio 2003
Se per una storia occorre trovare un’ambientazione, come ci è stato insegnato a fare, allora da chi o da cosa arriva quell’ambientazione, e soprattutto perché è necessario trovarla? Forse è una domanda superflua, in fondo non tutte le frasi fatte («trovare un’ambientazione» lo è) vanno scomposte e analizzate – anche se una che si riferisce alle «storie», che di linguaggio sono fatte, dovrebbe avere una certa precisione. Certo, le storie continueranno ad avvenire, a prescindere dal fatto che ci preoccupiamo o meno di cosa il luogo in cui avvengono significhi per la storia stessa. Ma se consideriamo questa strana espressione, la quale implica che perché una storia avvenga è necessario prima trovare un luogo, allora possiamo anche dedurne che quando un luogo viene trovato in cui far accadere qualcosa, questo suo accadere deve occupare una finestra temporale ben precisa. Il verbo «accadere» implica una durata nel tempo, un momento preciso. Ed è proprio questo momento a doverci preoccupare, quando ci troviamo di fronte alla più nota e terrificante frase di apertura che sia mai stata scritta: c’era una volta.
Incastonata in questa frase dall’aria innocente, che ho intenzione qui di spremere finché non inizierà a colare un liquido interessante, c’è una promessa di avvenimento, la prima cosa che viene promessa al lettore, o all’ascoltatore (lettore = consumatore di tempo artificiale). Per fornire un esempio opposto, la frase di apertura «Ho un’idea» non offre la medesima speranza, seduzione, promessa. Perfino il verbo è statico e non implica niente, si limita ad attestare il momento. Il tempo è escluso, e guardate quanta gente già si addormenta! «C’era una volta» è mille volte più promettente (è successo qualcosa, è successo qualcosa!). Forse abbiamo bisogno di credere che l’orologio ticchetti, che il tempo scorra in fretta prima di dedicare a qualcosa le nostre energie e la nostra attenzione.
Ovviamente la narrativa ha ormai abbandonato questo accogliente e ammiccante espediente in favore di frasi foriere più sottili, più delicate. Ma è sempre raro non percepire il ticchettio dell’orologio già al termine della prima pagina, imbattendosi in qualche verbo in attesa di affermare se stesso, di fornirci un momento preciso in cui credere – e i verbi, tradizionalmente, sono ciò che i personaggi usano per rimestare in quel torbido che chiamiamo narrativa. Senza «verbi fisici» abbiamo solo staticità filosofica, saggi, riflessioni. Non c’è alcun rimestio, perché sostanzialmente manca colui che stringe il mestolo. E questa è un’interessante distinzione, ricordatevela.
Forse è così che deve essere. Proust sosteneva che il dovere dello scrittore è dire la verità riguardo al tempo. Lasciamo stare la parola «dovere», che mi fa impallidire, ma sono convinto che l’asserzione di Proust, interpretata a piacere, sia servita da apripista per una fetta consistente della tradizione narrativa (valida ben prima, naturalmente, che Proust la formulasse). Se la narrativa ha un tema e un personaggio principali, uno svolgimento, una metodologia, un criterio, uno standard, uno scopo (c’è altro?), questo non è altro che il tempo stesso. La narrativa produce tempo fasullo per i lettori. Gran parte di essa ambisce a diventare tempo. In sua mancanza la narrativa non è più tale. Sì, anche questo è opinabile – ci sono Borges, Roussel, Christine Brooke-Rose e Robbe-Grillet, tra gli altri, a dirci il contrario, e in parte è la loro eredità che analizzeremo in questo pezzo, strizzandola finché non avremo in mano qualcosa che possa rappresentare il ritratto di questa tradizione «anti-storia».
Ecco che una metodologia basilare della narrativa diventa «creare tempo dove non ce n’era». Uno scrittore di narrativa che racconta storie è un creatore di tempo. E non apprezzare una storia potrebbe equivalere a non credere nella raffigurazione che essa fornisce del tempo.
È banale dire che le storie avvengono, mentre fa parte della più ampia e incrollabile convinzione secondo cui il tempo è e racchiude quella pratica che chiamiamo storia. Non è facile separare le due cose. Tuttavia, se il tempo è l’aspetto della narrativa che viene maggiormente dato per scontato, rappresenta anche il caro, vecchio muro di mattoni su cui un giovane e ambizioso scrittore deve sbattere la testa, se vuole aprire nuove vie nel mondo della narrativa. Per uno scrittore alla ricerca dell’«ostacolo da superare», il tempo diventa una sfida perfetta. Se c’è qualcosa, una sola cosa, che deve essere sovvertita, sconfitta per far sì che la narrativa rimanga risulti di significato, quella è il tempo – l’elemento di cui la narrativa non può fare a meno e che quindi, per crescere ed evolversi, deve imparare a trascurare.
Il tempo deve morire.
John Haskell fa parte di un interessante gruppo di nuovi scrittori che cercano di rinnovare la narrativa senza apparire stucchevolmente sperimentali (ossia illeggibili). Haskell lavora per lo più senza il tempo, o attorno a esso, creando narrativa che sembra saggistica, discorsiva, inerte, filosofica e, be’, senza tempo (no, non intendo dire che il suo libro d’esordio sia già entrato nella storia). Sì, ho detto «inerte» perché le cose non devono per forza muoversi, per risultare interessanti. Pensate alle montagne. Ai morti. Al pensiero. Haskell è un pensatore e, sebbene scriva spesso di cinema, sarebbe impossibile trasformare in film ciò che scrive.
Io non sono Jackson Pollock contiene alcune parti di narrativa canonica, ma per lo più è esempio di un nuovo tipo di scrittura, che curiosamente non sembra affatto interessata ai parametri della narrativa. Haskell si ispira in qualche modo a Borges, ma non come fanno gran parte dei cosiddetti «scrittori d’invenzione». Non è ossessionato dall’infinito e dai mondi dentro i mondi, non si adopera per forgiare concetti allucinati e voli pindarici escheriani – in ogni caso, non così tanto da renderli immediatamente riconoscibili come artificiosi. A Haskell interessa di più l’impiego di forme di non-fiction modeste e senza pretese, come facevano Borges o Sterne: il saggio, il reportage, il sunto biografico, l’analisi del personaggio (quest’ultima è la sua preferita, e la applica sia a persone vere come Glenn Gould e Jackson Pollock che a personaggi cinematografici come l’oste di Psycho, o a Topsy, il primo elefante «giustiziato» con l’elettricità). Haskell non delinea personaggi, ma scrive di loro, ed è proprio questa deliberata tensione verso l’esposizione a rendere quasi tutta la nuova narrativa curiosamente unica e insolita.
Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è: dov’è la narrativa in tutto questo, se le «storie» di Haskell rifiutano la storia e forniscono informazioni utilizzando la forma del saggio, analisi e riflessioni tipiche della non-fiction? La risposta potrebbe essere: la narrativa di John Haskell è insita precisamente nel sorprendente gesto che lo spinge a chiamare «narrativa» i suoi scritti. Haskell sta «narrativizzando» il suo genere. Oppure è la sua narrativa a essere un genere a sé. Haskell non è un artista di un genere in particolare, bensì un artista del genere.
Fare quello che fa Haskell significa correre diversi rischi, il che mi spinge a spendere un paio di parole sul concetto di rischio. Che cosa rischia uno scrittore, nel nostro paese, al di là del proprio orgoglio o della propria pubblicabilità? Che poi a pensarci bene non sono ideali tanto nobili, vi si può rinunciare senza troppo sforzo – molti di noi hanno iniziato a scrivere senza possedere né l’uno né l’altra. Ciò nonostante il rischio è la cosa che in teoria dovremmo prenderci quando scriviamo narrativa. La narrativa viene lodata quando è definita «rischiosa», ma un rischio di questo genere di solito implica rivelazioni vergognose, devastanti (potrei andare avanti delle ore a fornire degli esempi, ma mi limiterò a uno soltanto: mentre giocavo col mio cane e sperimentavo su di lui una nuova presa alla testa, chiamata «la Sumatra», nella foga siamo finiti a terra, lui con la testa tra le mie gambe e io tra le sue, una posizione che in certi circoli è chiamata «sessantanove» e alla quale da quel momento in poi mi sono sempre riferito, viste le premesse, col nome di «Sumatra»). Ora che quella di svelare segreti personali è diventata un’industria a sé stante, e direi anche piuttosto redditizia, mi è difficile immaginare quali potrebbero essere i rischi futuri, sul piano della letteratura.
Il rischio nella forma, d’altro canto, potrebbe sembrare più provocatorio, più interessante per chi è abituato alle tradizionali modalità della narrativa (Sì, dico a voi!), ma il rischio che più spesso viene citato in questi casi è quello finanziario dell’editore che sceglie di pubblicare opere del genere. L’editore rischia di non vendere abbastanza copie. E gli dispiace, ma non può correre un rischio simile (interessante, lo scrittore deve rischiare, essere audace, ma l’editore no). Il rischio potrebbe quindi avere un significato economico più palpabile di quello artistico. Perciò, ora che abbiamo stabilito che non è più chiaro che cosa sia il rischio letterario – forse il termine è stato strapazzato e modificato fino a morire, così come i termini «tagliente», «innovativo», «sorprendente», «sbalorditivo» – forse sarebbe più appropriato dire che, quando per tua sfortuna decidi di metterti a scrivere (in un mondo dove l’indifferenza è la più spaventosa e probabile risposta che si possa ottenere), ecco che scrivere narrativa senza storia è una scelta particolarmente curiosa, deliberatamente sabotante, e perciò degna di considerazione (no, non tutte le alzate d’ingegno letterarie sono «interessanti», ma alcune sì).
L’adagio «mostra, non raccontare» va a rafforzare il credo secondo cui la narrativa deve avere una storia, e scoraggia lo scrittore dal lasciarsi andare a parentesi discorsive e riflessive, che a quanto pare sono l’equivalente di sabbie mobili per qualsiasi autore. Quelle di Haskell, comunque, sono sabbie mobili dense come impasto e vale davvero la pena di finirci dentro, sebbene tanta inerzia possa apparire limitante. Se dobbiamo infilarci nel fango e soffocarci dentro, almeno che la nostra fine sia spettacolare. Dirlo, a quanto pare, non basta. Non si riesce a creare una fine di qualità semplicemente descrivendola perché non si renderebbe drammatico il momento – e anzi, la narrazione non lo prevede nemmeno, il momento. La narrazione è tirchia di tempo. Eppure, quando «raccontiamo» una storia, lo facciamo bene soltanto se non la raccontiamo veramente, ma mostriamo la suddetta storia immersa nel tempo. Che il raccontare non vada bene perché trascura completamente la nozione del tempo?
Prendete ad esempio questo paragrafo, tratto dal racconto di Haskell «The Faces of Joan of Arc».
Hedy Lamarr, per gran parte del film, si schiera al fianco di chi ha autorità, il che non è la stessa cosa che averne in prima persona. L’obbedienza è una via per riconciliarsi con la mancanza di autorità, o di scelta. Ma non è l’unica.
Questo è un modo divertente (ma neanche troppo) di cominciare una sezione di storia, ma qui c’è tutto Haskell in versione psicologica, una versione cui ricorre di frequente e che rende parti del suo libro spaventosamente simili a un manuale di medicina. Haskell espone con dovizia di particolari, ma stranamente senza utilizzare le parole per certi compassione – cosa che uno scrittore di narrativa potrebbe voler fare dopo aver rivelato alcuni dettagli di un personaggio. Il minimalismo nella narrativa, che nel suo picco massimo trae elementi psicologici dalla mera superficie, è aberrante per Haskell. Una delle cose che preferisce fare è sondare i conflitti interiori di un personaggio. L’effetto, tuttavia, è più freddamente intellettuale che calorosamente empatico:
Crea uno spazio tra ciò che fa e chi crede di essere, in modo da poter vivere almeno con un po’ di pace.
Voleva far uscire quello che aveva dentro, e poi cambiarlo, e cambiando quello sperava che cambiasse anche tutto il resto.
Dentro quella bolla poteva rilassarsi e far uscire la persona che era.
Attese che ciò che la macchina da presa voleva combaciasse in parte con ciò che lei voleva, e anche se la cosa non le piaceva completamente, poteva fingere di sopportarla.
… l’uomo voleva tirare fuori ciò che conteneva il ragazzo.
Haskell è un esperto nel chiarire quali siano i momenti in cui i suoi personaggi si sentono estraniati da loro stessi. La sfida rappresentata dal titolo è una forma di autonegazione che riecheggia in tutte le sue storie. È talmente scaltro nel rappresentare questo tipo di momenti che a quanto pare gli bastano per portare avanti storie intere. Una volta fatta la rivelazione, è pronto a concludere. Se mostra un difetto, è l’incapacità a convertire questa sua abilità in brani che dimostrino a tutti l’adeguatezza artistica della sua idea. Haskell non vede l’ora di mostrarci persone che si nascondono da loro stesse e cospirano contro i loro stessi interessi, agendo come molteplici identità in contesti agonizzanti – il che è, dopotutto, un’idea di frequente esplorata e sondata da molti scrittori – ma gli sfugge come fare a rendere immediata, viscerale e potente la nostra esperienza di questa sua ispirazione. Forse no, non gli sfugge, ma quando quest’idea è resa così centrale come nel caso delle sue opere, e la narrazione viene deliberatamente esclusa, il rischio si presenta in automatico se l’idea di cui parliamo non sembra originale.
A essere onesti Haskell non dispone di una lunga tradizione cui ispirarsi, di un sentiero che possa guidarlo in questo percorso tortuoso, perciò deve inventarsi di sana pianta un finale adeguato. Ha scelto una strada originale e sarà molto soddisfacente osservarlo esplorare territori sempre nuovi.
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Quando uno scrittore di prosa come Haskell ipotizza una distinzione tra storia e narrativa, il critico può tranquillamente domandare notizie della storia assente senza farsi rimproverare per aver stabilito a priori che la narrativa deve per forza averne una. Lo scrittore, invece, che voglia dividere le due cose rischia di cadere in un errore di categoria, e come minimo di essere letto nel modo sbagliato. Ma quando, per esempio, David Markson – romanziere che ha dato il là alla narrativa delle informazioni, dimostrando che la pura esposizione può essere profondamente commovente, e che volontariamente racconta invece di mostrare – sul New York Times viene ridicolizzato per non aver fornito una storia nel suo Reader’s Block, nessuno si chiede perché mai esattamente la narrativa debba per forza avere una storia (difficile avviare una discussione con una recensione di 150 parole). Né sappiamo che razza di storia avrebbe potuto esserci in quel libro squisito che, per riassumere, cataloga i vari modi in cui certe figure storiche odiavano intere razze di persone e/o morivano per propria mano (leggetelo).
Seguendo il criterio che «la narrativa deve avere una storia», Markson avrebbe dovuto scegliere uno dei suoi cento personaggi e addentrarsi in profondità, eseguire quel caro, vecchio lavoro psicologico per dirci come mai un tipo tanto interessante avesse finito per odiare gli ebrei e/o uccidersi. Avrebbe dovuto utilizzare più espressioni come «a quei tempi». Avrebbe dovuto creare delle sequenze. A quanto pare si è scordato che la letteratura in teoria è un’arte che si basa sul tempo.
L’amnesia di Markson è soltanto uno dei fortunati incidenti verificatisi nell’ultimo decennio di narrativa. Rifuggendo un interesse feticista e convenzionale nel personaggio, o una doverosa fedeltà alla creazione del momento, dell’attimo, Markson ottiene ciò che una storia – trascinandosi nel tempo, obbediente al concetto di momento – non può, ovvero delineare un ritratto ossessivo di singoli comportamenti nel corso della storia, un catalogo di atrocità che, tramite un infinito numero di esempi, sconvolge, sopraffà. Il suo è un romanzo leggibile come un saggio, ma a differenza di gran parte dei saggi, è privo di liricità, è poesia sotto forma di storia, ed è sufficientemente coraggioso da lasciare buchi inquietanti là dove normalmente ci troveremmo contesto (il fardello del saggista tradizionale).
Questo potrebbe spiegare la comparsa di una nuova categoria di scrittura, il saggio lirico, che ultimamente riempie numeri speciali delle riviste letterarie come The Seneca Review e, in particolare, una nuova, provocatoria antologia, The Next American Essay, a cura di John D’Agata, maestro e scaltro sostenitore della forma. Chi scrive saggi lirici si prende tutte le libertà garantite al romanziere, sgravato però dal fardello della finzione cui il romanziere deve sottostare, il brutale detto «nulla di tutto ciò è realmente accaduto» che tiene schiavo lo scrittore di narrativa. Del lavoro di un saggista lirico nessuno può dire «è soltanto narrativa», una frase vuota e, purtroppo, spesso utilizzata per criticare il prossimo. Quella di saggio lirico è una definizione ingegnosa: il saggista in teoria affronta un argomento reale, mentre chi scrive narrativa è costretto a dimostrare la realtà di cui parla, o ancora meglio a crearla, e può aspettarsi sfiducia e dubbio dal lettore sin dal principio. Nella narrativa il lirismo può venire inteso come mezzo di evasione, qualcosa di pretestuoso, una supplica. Nel saggio è arte, un’ode al Reale che ha il potere di migliorare ciò che si crede di sapere. Tutto questo per dire che, oggi, uno dei modi più intelligenti per scrivere narrativa è dire che no, non stiamo scrivendo narrativa, e poi fare ciò che più ci aggrada. Prendete nota, romanzieri. La migliore narrativa di questi tempi è stata scritta sotto forma di non-fiction.
The Next American Essay procede cronologicamente dal 1975 al 2003, da John McPhee a Jenny Buolly, con D’Agata che inserisce qualche commento come transizione a ogni pezzo, acuto, personale, sagacemente ottuso, appassionato, lucido, perfino miope. Soltanto questi interventi di D’Agata, che dimostrano quanto possa essere vivace un’antologia, farebbero invidia a qualsiasi editor, perché rappresentano un ammasso di suggerimenti talmente futuristici e brillanti da fornire a un’intera generazione di scrittori gli strumenti per dare avvio a un nuovo, impressionante movimento letterario. D’Agata, nella sua opera di curatela, è in grado di riconfigurare il modo di scrivere di chicchessia, decide ciò che è bello e lo rende tale mediante uno scaltro lavoro di presentazione. Nell’antologia compaiono scrittori che devono essere rimasti sorpresi di vedersi in quel libro, di sentire che le proprie storie venivano considerate saggi lirici. D’Agata, in alcuni casi, giustifica le scelte di tali scrittori affermando che la narrativa è un termine protettivo, rappresenta un riparo per il materiale letterario più difficile, che per sua stessa natura è «saggistico». Ah, se tutti gli scrittori di narrativa fossero altrettanto fortunati…
La più grande professionista del saggio lirico, che sembra aver ispirato l’opera editoriale di D’Agata, è la poeta canadese Anne Carson. Sventolando il vessillo della poesia, la Carson ha prodotto alcune delle opere più intelligenti e rigorose degli ultimi dieci anni: saggi, racconti, trattati, in particolar modo quelli contenuti nella sua raccolta più provocatoria, Antropologia dell’. Il pezzo intitolato «Short Talks», che lei stessa descrive come una serie di conferenze da un minuto e che analizza la storia della filosofia in una sorta di resoconto animato, rientra simultaneamente nella narrativa, nella poesia e nella saggistica, e viene difesa e incensata dai principali esponenti di ciascun genere.
I criteri poco rigidi adottati per definire il saggio lirico lo rendono quindi una sorta di non-fiction non appesantita dal fardello della ricerca o dei fatti accertati, che pur tuttavia rimane responsabile e sottomessa al buonsenso e alla poetica, oltre ai limiti imposti dall’argomento trattato. Suona stranamente simile alla narrativa, vero? Basti pensare che molti autori inclusi nell’antologia di D’Agata, come Harry Mathews, Carole Maso e Lydia Davis, hanno pubblicato le loro opere come narrativa, e indubbiamente continueranno a farlo. Altri, come la Carson o Boully o Joe Wenderoth, hanno sovente definito «poesia» il proprio lavoro. Thalia Field ha pubblicato le sue singolari opere definendole «narrativa», anche se sembrano più poesie. Il mio, ovviamente, è un saggio, così come sono saggi tutte le forme di autobiografia. David Antin è presente nell’antologia con uno dei suoi noiosissimi diari, che per fortuna non riesce a rovinare l’opera nella sua interezza. David Shields è presente con un catalogo lishiano di cliché, una raccolta di significati bizzarri che dimostra quanto possa essere rivelatorio il linguaggio quotidiano. Poi ci sono geni come David Foster Wallace, Joan Didion e Susan Sontag, con i loro contributi ambiziosi che sono considerati a buon diritto saggi, sebbene siano una minoranza in quanto opere di genere ben definito, non «misto» come le altre.
Purtroppo nell’antologia – che altrimenti sarebbe stata una delle più importanti mai pubblicate – mancano alcune delle voci più sincere del saggio lirico: Daniel Harris, Lawrence Weschler, Joy Williams e Dallas Wiebe.
Ci si chiede subito in che modo l’etichetta scelta per un’opera possa «liberare» o «costringere» uno scrittore, e se per esempio John Haskell, assente nell’antologia, sarebbe stato accolto meglio con un’etichetta diversa e con il sostegno di uno come D’Agata. Sarebbe stato più apprezzato come saggista lirico, come artista dell’informazione non appesantito dalle aspettative convenzionali del lettore? Me lo chiedo perché l’opera di Haskell soffre della definizione narrativa che alimenta la speranza che nei suoi libri ci sia una storia che invece non c’è. Nella narrativa priva di storia si sospetta sempre che lo scrittore voglia impartirci una lezione invece che intrattenerci («Quello che leggo deve divertirmi, piacermi», si pensa), mentre il piacere del lettore non è ai primi posti nelle priorità dello scrittore. Le aspettative possono bloccare il lettore, fargli continuare a desiderare la presenza di una storia. È come se ci si sentisse intrappolati in un eterno flashback, in attesa del ritorno del presente. Un lettore risparmia la propria attenzione per altro, se percepisce che ciò che sta leggendo non è la vicenda principale, il fatto in sé, e che la vera storia deve ancora arrivare. Il libro di Haskell potrebbe essere relegato senza problemi nel settore della libreria dedicato ai saggi cinematografici, dove eseguirebbe le sue sfrontate narrativizzazioni con effetti ancora più sorprendenti, essendo molto più raccolta di studi cinematografici con picchi di narrativa che il contrario.
Potrebbe anche essere che gli scrittori che piegano la narrativa a proprio piacimento – Haskell e Markson, ad esempio – manchino finora di un sostenitore come John D’Agata, anche se non c’è motivo di credere che questi non voglia attirare sempre nuovi romanzieri sotto la sua ala protettiva, là dove le etichette di genere cessano di avere importanza. C’era una volta un’epoca in cui ci saranno scrittori cui non importerà come il mondo definisce la scrittura d’invenzione, e ci saranno lettori che la ameranno per la passione, la forza dell’intelletto e l’originalità formale che esprime, senza pensare al resto.
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Ben Marcus è autore, tra gli altri, del romanzo The Flame Alphabet e della raccolta di racconti Leaving the Sea, entrambi di prossima pubblicazione per Edizioni Black Coffee.
Titolo originale, The Genre Artist @ Ben Marcus, 2003, all rights reserved