Questo racconto è apparso originariamente su Hobart, 20 settembre 2017
Era lì, alla finestra. Sentivo il tap-tap-tap. Le sue nocche come sassolini, manciate di ghiande che bombardavano il vetro. Divaricavo le dita dei piedi sotto le coperte. Apri. Chiudi. Non eravamo al sicuro. Non eravamo al sicuro!
«Hannah» dissi.
Mia sorella dormiva.
Mi avvolsi la coperta intorno alle spalle, come un mantello, e infilai i tacchi di mia madre. Ticchettai fino alla finestra, nelle scarpe avevo un sacco di spazio per le dita.
Sfiorai le pieghe polverose della sua coperta, nel buio. «Hannah» dissi.
Niente.
Mi piaceva il fruscio di quando tiravo le tapparelle. Il cielo era del colore della frutta all’interno, rosa e mandarino. La quasi-mattina profumava di carta. Inspirai a fondo con gli occhi.
Eccolo.
Il ragazzino selvatico stava in equilibrio su un ramo sottile come il mio polso, le dita dei piedi che stringevano steli di corteccia. Boccioli bianchi cadevano come neve. Aveva i denti giallastri, delle zanne. Era talmente vicino che vedevo lo spazio lasciato da un dente mancante, la minuscola stalattite di gengiva. Appoggiò la mano sulla finestra, sollevandosi in punta di piedi sul ramo.
«Vieni» dissi. Misi il palmo sul vetro, contro il suo. Tornò subito accovacciato sul ramo. Ma mi fissava. Senza battere le palpebre.
Mi diedi un colpetto sul cuore. «Amore» dissi. Volevo che lo sapesse.
A papà non era ancora venuto in mente di far mettere gli scuri. Aprii la finestra fino in cima, anche se di solito avevo paura a farlo. Allungai le mani, i palmi aperti, rosa.
«Vieni» dissi. «Vieni, amore».
Venne. Attraverso la finestra aperta, ora completamente sgombra. Aveva i capelli ritti, puntuti. Le guance pitturate di fumo di camino.
Mia sorella si tirò a sedere senza usare le braccia. Si alzò e basta, così.
Il ragazzo selvatico schizzò ad appiattirsi contro il muro, la schiena alla parete. Ebbi l’impressione di vedergli il cuore sotto la pelle, che batteva forte tu-tum, tu-tum. Nel suo collo, le vene erano un rampicante verde.
«Shhh» dissi. Gli porsi la mano.
«Papà si arrabbierà» disse mia sorella. Si mise le braccia sul petto, le incrociò.
Mi picchiettai il dito sul cuore guardando il ragazzo. Amore. Mia sorella non sapeva cosa intendessi. Quello che intendevo era soltanto per lui.
«Papà non lo saprà mai» dissi. Oscillavo qua e là, da un piede all’altro. «Se nessuno glielo dice».
Mia sorella si strappò un filo dalla manica che cominciava a essere divorata dalle tarme.
Il ragazzo era ancora appiccicato alla parete, sottile come un’ombra. Si leccò le labbra, agli angoli. La lingua rosa come una sporgenza tra i denti. Il suo cuore… speravo restasse dentro di lui.
E poi il sorriso di mia sorella. Si stringeva le spalle con le braccia, le punte dei gomiti come limoni facevano capolino.
Ci accucciammo una accanto all’altra dentro l’armadio, con i piedi che quasi si toccavano. Ci mettemmo a lavorare in silenzio. La mamma aveva impilato le cose in più sullo scaffale in alto, dove, diceva, c’era posto. Avremmo fatto al ragazzo un letto con gli asciugamani.
Avanzai in ginocchio verso di lui. Volevo toccarlo proprio sotto il mento, dove avrei sentito la stessa consistenza soffice della seta che portava mia madre, un accenno di pizzo sotto la gonna. Strinse le cosce come un fermalibro, come a volersi sostenere in vista del mio tocco. Sulla nuca aveva i capelli impiastricciati, gorghi di luridume. Il resto stava dritto in un intrico di cordame. Mi toccai il cuore. Amore, emanavo.
Il ragazzo taceva, ci guardava. Sembrava un tacchino pronto per essere ammazzato, dal modo in cui teneva il capo basso, le gambe strette, le braccia dietro la schiena. Mi chiesi se gli animali con cui era cresciuto non fossero uccelli, se nel suo silenzio una cosa che sapesse fare fosse volare. Mi davo dei colpetti sul cuore e non me ne curavo. Benvenuto, amore.
Allungai la mano verso il ragazzo. Lui si avvicinò gattonando, la schiena arcuata come un ponte. Mi strofinò la testa sulla gamba, era calda e unta. Mi inginocchiai accanto a lui. Ritirò le labbra dentro la bocca. Sentii la foschia del suo alito sul palmo. Sentii lo stomaco incresparsi, come un lago dopo il lancio di una pietra.
Strinsi il pugno.
Mi toccò le nocche col naso, curioso. «No» dissi.
«Che stai facendo?» disse mia sorella.
No. Era solo un ragazzo, da vicino, così come io ero una ragazza. Nato da qualche parte, con dei genitori che una volta erano stati insieme, in modo più che normale, per creare lui. Vederlo così da vicino rovinò tutto, e non potei fare a meno di pensare che avrei potuto conoscerlo, quel ragazzo, stargli seduta accanto a scuola.
Scostai le tapparelle, attorcigliate come i rami di una vite. La finestra si aprì con facilità. Sollevai le dita in aria, e mia sorella mi chiese ancora che cosa stai facendo. «Vieni» dissi. E quando lui non lo fece, mi tamburellai di nuovo le dita sul cuore. «Amore».
Sentii le lacrime e la gioia, improvvise, violente, sbloccare una serratura dentro di me, nella gola.
Se n’era andato.
*
Gli scritti di Miriam Cohen sono stati pubblicati su The Black Warrior Review, StoryQuarterly, West Branch Wired, Cream City Review, The Florida Review, DIAGRAM, Carve Magazine, Cimarron Review, The Collagist, Bennington Review, Joyland and Fugue. Ha vinto una borsa di studio Carol Houck Smith Fellowship al Winsconsin Institute for Creative Writing e ha conseguito l’MFA al Sarah Lawrence College.
Titolo originale: Come, Love @ Miriam Cohen, 2017, all rights reserved
Fotografia @ Mariateresa Pazienza