Questo racconto è apparso originariamente su Bennington Review numero 1, primavera/estate 2016

Louis CK, mio marito, ammucchia tutti i miei cavallucci marini al centro del nostro letto matrimoniale e si mette a urlare. Vedo il cavalluccio marino luna e stelle, quello verde e quello senza occhi, il cavalluccio marino rosa, quello che parla, il cavalluccio marino incinta, e quello triste, ma non vedo il cavalluccio marino nero. «Dov’è il cavalluccio marino nero, Louis?» Louis CK, mio marito, si arrabbia ancora di più. Con una voce cantilenante da bambina piccola, dice: «Dov’èèè il cavallucciooo mariiino neeero, LOUIS?». Mio marito, Louis CK, non si sta comportando in modo carino, perciò rispondo: «No, non “cavalluccio marino nero Louis”, solo cavalluccio marino nero», frase che lo fa andare su tutte le furie. Allora chiedo: «Qual è il problema, Louis? Perché sei così stronzo? E che cosa c’entra la tua rabbia con i miei cavallucci marini, Louis?».

Ogni sera la stessa storia.

Il mattino dopo è tutto passato.

Louis CK e io ci teniamo per mano. Andiamo fino al campo di fiori selvatici e facciamo l’amore. Non parliamo più dei cavallucci marini. Louis mi spinge la testa all’indietro. Mi bacia il collo. Ha le labbra ruvide come corda. Dico: «Finalmente» «Cosa?» chiede Louis. Si guarda intorno. «Finalmente cosa?» ripete. «Tu» dico, anche se non ne sono sicura.

Non so come spiegarlo, ma da quando ci sono i cavallucci marini io e Louis siamo diventati sempre meno umani. La nostra capacità di comunicare, prima stratosferica, è diventata nebulosa. «Parlami dell’eternità, Louis». E Louis mi parla dell’eternità ricorrendo per lo più ai fiori selvatici del prato. Per ore, con i petali e gli steli, costruisce imbarcazioni e intere città e nazioni abitate da persone con orribili capelli lunghi e fluenti, ma senza cavarne un ragno dal buco. Parla a lungo, ma con poche parole e molte pause, e parole lasciate a metà. Come se nel bel mezzo del loro essere parole avessero chiuso gli occhi, si fossero addormentate e avessero sognato di essere cavallucci marini.

Quando torniamo a casa, Louis CK, mio marito, ammucchia tutti i miei cavallucci marini al centro del nostro letto a una piazza e mezza e si mette a urlare. «Credevo che avessimo un letto matrimoniale, Louis». Adesso il letto è inequivocabilmente a una piazza e mezza, dando così l’impressione che i cavallucci marini siano più grandi di quanto non fossero ieri sera. Ancora niente cavalluccio marino nero. Louis non mi risponde, né mi guarda. Si limita a continuare ad ammucchiare e urlare, ammucchiare e urlare. Vedo super cavalluccio marino e cavalluccio marino vecchio, e cavalluccio marino nessun posto, e cavalluccio marino del perdono, e quello che gli altri cavallucci marini chiamano Il Santo, e quello che chiamano Lo Scemo.

Ogni sera la stessa storia.

Il mattino dopo è tutto passato.

Louis CK e io andiamo al diner. Sediamo al nostro tavolo preferito. «Ti amo» dice Louis. «Io di più» dico. Ci teniamo per mano. Siamo vivi più che mai. La cameriera prende l’ordinazione. Louis ordina due uova alla coque, caffè e pane tostato con marmellata alle fragole. Io anche. Non nominiamo i cavallucci marini. La cameriera si chiama Poppy. Indossa una maglietta con un razzo rosso e blu. Poppy ci serve la colazione. «Dove va il razzo?» chiede Louis. Poppy mi guarda. Io mi stringo nelle spalle. Non ne ho idea. Poppy guarda Louis. Poi guarda il razzo. «Non va sempre sulla luna?» chiede Poppy. «Immagino di sì» dice Louis. Gli è rimasta un po’ di marmellata sulla guancia. Poppy bagna il tovagliolo nel mio bicchiere d’acqua e lo pulisce. Lo bacia sulla bocca. E Louis bacia lei. Si baciano per un bel po’. «Non soffrire» sussurra lei. «Non soffrire di più» sussurra lui. Mentre si baciano costruisco una torretta con le mini marmellate, e le mini confezioni di burro e di miele. Ne raccolgo anche dagli altri tavoli. La torre è così alta che devo salire in piedi sul tavolo per continuare a costruirla. In cima immagino di mettere cavalluccio marino tienimi con te e cavalluccio marino non lasciarmi mai, ma, un attimo prima che Louis e Poppy smettano finalmente di baciarsi, la torre crolla.

«È tutto qui?» chiede Louis. Ci guardiamo intorno. Sembra di sì. Il diner è vuoto. Le mini marmellate, e le mini confezioni di burro e di miele sono sparse dappertutto. Poppy è sparita in cucina. Magari per sempre. Guardiamo fuori dalla finestra. In strada ci sono delle palline da ping-pong arancioni, rosse e verdi che né io né Louis abbiamo mai visto prima, ma a parte questo non molto altro. Il nostro amico Ferguson ci passa davanti correndo. Busso forte sul vetro e grido: «Ehi, Ferguson, è tutto qui?». Ma lui non mi sente. «Vai pure avanti senza di noi» grida Louis. Ma Ferguson è già andato avanti.

«Guarda» dice Louis. «A Ferguson è caduto qualcosa dalla tasca». Louis e io ci precipitiamo fuori dal diner vuoto per vedere di che si tratta. Due cavallucci marini neri identici se ne stanno lì sdraiati su un fianco. Le teste si toccano. Sto attenta a non avvicinarmi troppo. Questi cavallucci marini hanno qualcosa di strano. È possibile che le loro teste siano attaccate. È possibile che nessuno dei due sia il mio cavalluccio marino nero. È possibile che non siano vivi.

«E allora, è TUTTO QUI?» chiede Louis. Agita le braccia con foga. Sembra arrabbiato. Non so se con «tutto qui» si riferisca ai cavallucci marini o ai miei sentimenti verso i cavallucci marini o al mio cavalluccio marino nero scomparso o all’apparizione di Ferguson o alla torre franata e rovinata per sempre o alle palline arancioni rosse e verdi che stanno ancora rimbalzando o alla vita in generale o all’eternità o al suo imperituro amore per me che potrebbe essere in procinto di morire un po’ per via dei cavallucci marini, un po’ per via del bacio con Poppy.

Quando torniamo a casa, Louis CK, mio marito, ammucchia tutti i miei cavallucci marini al centro del nostro letto singolo e si mette a urlare. Ripenso ai due cavallucci marini neri identici. Quale sarà il mio? Intendo dire: quello che davvero mi appartiene? Guardo Louis. Il nostro letto si sta restringendo. Ogni giorno lui mi distrugge. E ogni giorno, in cambio, io distruggo lui. Piccoli, minuscoli pezzi di distruzione. Te ne accorgi a malapena.
Abbiamo un bambino qui da qualche parte, ma è troppo piccolo. Louis ammucchia e urla, ammucchia e urla.
Vedo cavalluccio marino pieno di lividi, cavalluccio marino che ringhia e cavalluccio marino marcio e cavalluccio marino primo piano e cavalluccio marino di legno e cavalluccio marino felice, e quello vuoto, ma non vedo cavalluccio marino nero. Chiamo Ferguson. Non risponde. Lascio un messaggio.

Ogni sera la stessa storia. Il mattino dopo è tutto passato.

Louis? «Sì, Cavalluccio Marino?» Louis mi chiama Cavalluccio Marino. Siamo già arrivati alla parte triste? «Sì, Cavalluccio Marino».

«Quando arriva alla parte divertente, Louis?»
«Presto» dice Louis. «Presto».

Louis CK e io andiamo al cimitero nebbioso. Ferguson è lì. Si dondola avanti e indietro, come se stesse pregando. Al centro del cimitero c’è una fontana. Bevo un sorso d’acqua. Louis anche. Si guarda intorno. «Di chi sono queste ossa, Cavalluccio Marino?» Mi guardo intorno. «Nostre, probabilmente» dico. Louis si mette una mano davanti alla bocca e sputa. Gli cade un dente. Uno piccolo. Non indispensabile. «Siamo alla parte divertente, Louis?» «No, Cavalluccio Marino, non ancora» Mi dà il dente perché glielo tenga. Lo faccio ballonzolare sul palmo della mano. È ghiacciato.

Nello spazio dove prima c’era il dente, ora Louis ha un minuscolo cavalluccio marino bianco che brilla. Balliamo un lento nel cimitero nebbioso. Mentre Louis guarda dall’altra parte lascio che il dente mi cada di mano e si perda in un cumulo di ossa.

Ferguson si sta ancora dondolando. Agita i pugni in aria, li apre, ed ecco che ne vola fuori una pioggia di cavallucci marini neri. Riesco a contarne cinquanta. Forse di più. Li raccolgo tutti. Me li infilo nella camicia. Ma non mi basta. Voglio altri cavallucci marini neri, perché il mio cavalluccio marino nero si ostina a non saltar fuori. Mio marito Louis CK e io torniamo indietro a cercare i due cavallucci marini che erano caduti di tasca a Ferguson. La strada per andare dal cimitero nebbioso al diner è lunga. Ci vogliono due giorni di cammino, ma alla fine arriviamo. I cavallucci marini sono nel punto esatto in cui li abbiamo lasciati. Louis li gira con la punta del pollice e fa un balzo all’indietro. I cavallucci marini si separano. Sulle loro pance ci sono delle scritte.

La pancia di un cavalluccio marino dice: «Non appartengo a te».

Quella dell’altro dice: «Nemmeno io».

Louis si mette a ridere. Poi mi metto a ridere io. Poi dal riverbero del sole spunta Poppy e si mette a ridere anche lei. Ci rotoliamo per terra, ridendo. Rido così forte che mi fa male il petto, come se mi stessero sparando ripetutamente al cuore con proiettili a forma di cavallucci marini neri che non mi apparterranno mai. Voglio chiedere a Louis se questa è la parte divertente, ma sto ridendo così forte che mi manca il respiro.

Voglio chiedere a Louis se questa è la parte divertente, ma quando riprendo fiato e alzo lo sguardo, Poppy e Louis non ci sono più. L’unico a cui posso chiedere è un poliziotto che fischia in lontananza.

Il mattino dopo è tutto passato.

*

Sabrina Orah Mark ha scritto la raccolta di poesie The Babies e Tsim Tsum. Ha vinto una National Endowment for the Art Fellowship, una borsa di studio del Fine Arts Work Center e il Sustainable Arts Foundation Award. Le sue poesie e i suoi racconti sono apparsi su Tin House, American Short Fiction, jubilat, B O D Y e The Believer.

Titolo originale, Let’s Do This Once More, but This Time With Feeling @ Sabrina Orah Mark, all rights reserved
Traduzione di Francesca Pellas