Questo pezzo è apparso originariamente su Hobart il 12 marzo 2019

 

Ci sono cose che ricordo di quando ero piccola di cui mia madre non ama molto parlare. Ad esempio il fatto che dovessi vedere tutti questi specialisti perché le mani mi prudevano in continuazione, e quelli mi davano una crema specifica e dicevano di lavarle con un particolare sapone senz’acqua. Me le grattavo allargando le dita come in quel passo di danza jazz per poi strofinarle su e giù con forza su quei nostri irritanti pavimenti ricoperti di moquette da una parete all’altra. 

«Come fai a ricordartelo?» mi chiede lei.

«Perché ancora oggi le mani mi si seccano e sembra che la punta delle dita si stia sciogliendo».

Ma non ricorda bene cosa dicevano i medici e mi dice solo di mettere la crema da notte della Mary Kay la sera e usare dei guanti quando lavo i piatti. Quella crema odora di nonna. Appena infilati, i guanti sono pieni di talco e mi stanno larghi. Ho bisogno di un’extra small, altrimenti mi scivolano e perdo la presa sulle cose e va a finire che le rompo. 

Ho capito che è meglio raccontare alla mamma esattamente quello che ricordo io e poi lasciarla commentare. Così sembra meno un esame. Come quando invece di chiederle se si ricorda quella raccolta di inni con cui ero fissata, le dico semplicemente, «Ti ricordi “Eccomi, Signore”?».  

Allora risponde, «Certo, ti piaceva tanto».

E così si conclude il discorso. Solo che io non ho ancora finito di ricordare mentre lei lo ha già fatto. 

Le cose che più mi sono rimaste impresse sono la vista dell’insegna in legno della chiesa, con quelle quattro file di numeri incise sopra, e il fatto che poi cercavo quei numeri dentro all’innario, non appena arrivavamo alla nostra panca. Credo sia iniziata così, come qualcosa da fare per combattere la noia. Poi però è finita che mi sono affezionata a quel canto in particolare e ho memorizzato il numero così da sapere subito con certezza, invece di sperare soltanto, che fosse in programma per la messa del sabato pomeriggio – quella a cui andavamo noi. Puzzavo dopo aver giocato fuori tutto il giorno, prima di andare alla St. Raymond, ma per il modo strambo che avevo di vedere le cose non mi dispiaceva di abbandonare gli amici perché significava avere la possibilità di sentire quella canzone.  

Non amavo cantarla, mi piacevano soltanto le parole. Fa tenerezza pensare, adesso che sono adulta, a quanto mi piacesse quel particolare inno, e forse era proprio a questo che cercavo di arrivare ricordando alla mamma questa cosa che facevo da piccola. Invece era come entrare in chiesa e scoprire che quel giorno non avrei sentito la mia canzone. 

La canzone è su YouTube ora, quindi qualcuno là fuori ha effettivamente montato il testo in modo da farlo apparire sopra a svariati paesaggi, di quelli che si vedono solitamente nei calendari appesi nei discount con le citazioni bibliche. La pubblicità di un culto del benessere da due soldi. C’è tutta quella parte motivazionale sul ricevere la chiamata, e un’aura da Signore onnipotente che si domanda chi potrebbe mai inviare. Ma poi rivedo la piccola me sentirsi così potente dopo un’intera giornata in bicicletta, a pensare ad alta voce da quel banco in chiesa:

Ehi, sono io, eccomi, Signore. Sono io, Der Der, e vivo a Downey, in California, e faccio parte della parrocchia di St. Raymond, e mi annoio davvero a morte in chiesa, tranne quando riusciamo a cantare questa canzone in cui chiedi di me. Sono pronta a portare tutto questo bene nel mondo. Fa’ pure, manda me. Non c’è neanche bisogno di arrivare alla fine della canzone, quando chiedi, Chi devo mandare? Sono io. Sono sempre stata io. Sono mesi che aspetto che suonino di nuovo questa canzone. 

Poi la messa andava avanti, io prendevo una di quelle ostie sottili, bevevo un po’ di quel vino annacquato, mi facevo il segno della croce e che la pace sia con te, e con te e con te. E tutto era uguale a prima.

È solo il giorno dopo essere riuscita a parlare con la mamma, sperando di sentirla condividere con me questa cosa carina che facevo da bambina ma non ottenendo la reazione che mi aspettavo, che ho cominciato a pensare a quanto la canzone fosse in realtà molto triste. 

Fa rimare il dolore delle persone con «neve e grigiore», poi dice che il grande signore del vento e del fuoco preparerà un banchetto per i poveri e gli infermi. Mi rattristo così tanto che gli occhi mi si riempiono di lacrime e presto assomiglio a uno di quei bambini che piangono nella versione su YouTube. In realtà non piango per quella dannata canzone, ma ha solo per mia madre. 

C’è stato poi quel giorno in cui mi lasciò in chiesa. Accadde per sbaglio. Stavo litigando con mio fratello su chi dovesse sedersi davanti. Vinse lui. Tirai la maniglia dello sportello con troppo anticipo e quella non si sbloccò. Continuavo a tentare di aprirla ma niente, lei partì e basta. Mi misi a correre per strada inseguendola e urlando «MAMMA! MAMMA! MAMMA!», ma la Oldsmobile diventava sempre più piccola e non sapevo più come tornare a casa. Mi venne in mente ogni singolo episodio di America’s Most Wanted, e immaginai che la mia vita sarebbe finita così. Non avrei mai più rivisto la mia famiglia. Uno di quegli «uomini cattivi» era in agguato dietro l’angolo, ad aspettarmi. Rimasi là, a guardarmi intorno, pronta a scappare senza però sapere quale direzione prendere. 

Poco dopo incontrai in una vecchia signora con un tailleur bordò. Mi prese per mano, dicendomi che sarebbe andato tutto bene. Poi aggiunse che saremmo andate a cercare il prete, così avrei chiamato la mamma e tutto si sarebbe sistemato. Quando arrivammo all’ingresso della chiesa, era tornata anche la mamma. 

Questa è una di quelle cose che mia madre preferirebbe non ricordassi. Ma la sera, prima di andare a letto, mentre metto la crema da notte extra emolliente sulle mani rovinate, all’improvviso mi rendo conto che quei brutti pensieri che avevo fatto doveva averli fatti anche lei, e chi mai vorrebbe ricordarli? 

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Ifer Moore vive e lavora a Los Angeles. Scrive per alcune riviste online e scatta troppe foto al suo cane. È su Instagram e Twitter @ifermoore

Titolo originale, Here I am, Lord, copyright @ Ifer Moore, all rights reserved
Traduzione di Sabrina Pezzopane