Questo pezzo è apparso originariamente su Bennington Review numero 6, inverno 2018/2019
Quel nuovo sonno sembrava dotato di vita propria. Occupava spazio, aveva peso e sostanza. Era come una presenza percepita fin dentro le ossa da chiunque si trovasse nelle immediate vicinanze. Chi anche soltanto passava davanti casa – un estraneo – sentiva che tutto era avvolto da un’aura, una forza magnetica, una gravità. Ne venivano attratti e prestavano attenzione alla donna in modo del tutto diverso rispetto a quando era sveglia.
Alcuni fra quelli che la conoscevano (e a quel punto non erano più in tanti) reagivano con disgusto e davano al sonno una definizione – era solo «pigrizia» o «vanità» – con distinzioni che usavano quasi come dei talismani per tenerlo a bada. Era in pensione ormai, aveva diversi nipoti. Di certo, avrebbe potuto impegnarsi nelle attività di volontariato per il quartiere, oppure, se non proprio nel volontariato (si poteva anche perdonare a una madre anziana uno scivolone nell’egoismo), almeno in altri passatempi più dinamicamente egocentrici per compensare la gioventù perduta: viaggiare, per esempio, o organizzare un gruppo di lettura. Dipingere ceramiche o qualche hobby del genere. Era quasi come se, scegliendo di vivere in quello stato semi-permanente di torpore, lei minasse la concezione di vita e morte che tutti avevano. Desideravano così tanto disporre di tempo libero per concedersi qualunque cosa rappresentasse (ai loro occhi) la vita vissuta, svincolata dagli obblighi verso i figli o la carriera, ed ecco che lei se n’era chiamata fuori lasciando tutti profondamente scioccati dalla scelta di un percorso tanto alternativo rispetto a, per esempio, imparare una buona volta il francese o perfezionare la ricetta di famiglia della bouillabaisse.
Altri (l’unica figlia non estraniata, la badante) sostenevano che non fosse poi così diverso dalla vita della maggior parte delle persone, che spendevano giornate intere (ed era a tutti gli effetti una transazione, oramai) sedate dall’oppiaceo potere ipnotico della televisione. E c’era persino la possibilità, suggerivano le due alleate, che potessero esserci grandi benefici in quel sonno, una straordinaria vivacità nei sogni della donna che nessuno poteva anche solo immaginarsi di decifrare.
Quel sonno era diverso dal coma perché era chiaramente volontario – e malleabile. Se necessario, la donna poteva anche tenersi su per un evento di famiglia – per esempio la recita di un nipotino, oppure la cena del Ringraziamento – e, da sveglia, era attenta e convincente proprio come richiesto dalle circostanze. Se però capitavano dei momenti di vuoto tra le attività, come la pausa a tavola tra la cena e il dolce, o se era un altro bambino a dominare il palcoscenico durante la recita, lei si reimmergeva all’istante, come una balena che sale in superficie solo per respirare e poi si arrende agli abissi amniotici delle profondità marine.
«Magari laggiù è anche meglio», ipotizzava il pronipote di secondo grado. Per risolvere la situazione, la famiglia aveva indetto un incontro che li aveva riuniti tutti come non succedeva da dieci anni, dalla volta che proprio quel nipote era finito in galera per furto aggravato. «Cioè, la sua vita non era poi così male, perché avrebbe preferito togliersi di torno? Deve viverlo come una specie di miglioramento. Ma questa è solo la mia opinione, non voglio intromettermi nelle sue faccende. Non è un pericolo per gli altri o per se stessa».
«Ne sei sicuro?» La figlia estraniata e il figliastro del secondo matrimonio fallito puntavano il dito contro il sonno, sostenendo che quella condizione potesse essere ereditaria e che si rischiasse anche di dare il cattivo esempio ai nipoti, a fargli credere che fosse uno stile di vita accettabile – anche se le preoccupazioni dell’ex figliastro sulle questioni genetiche erano poco chiare agli altri.
Su richiesta della famiglia, i dottori le avevano prescritto l’Adderall ma senza risultati, e a un certo punto i parenti le procurarono e rifilarono persino delle anfetamine per cercare di interrompere le fasi REM, ma non fecero altro che indurre un inquieto, convulsivo e angosciante stato di inerzia, che lei sembrava comunque preferire all’essere sveglia e attiva. Dal punto di vista biologico il sonno somigliava al letargo, motivo per cui non aveva bisogno di nutrimento o di andare in bagno per vari mesi di fila: non sembrava, insomma, che quel sonno l’avrebbe condotta alla morte. In una situazione del genere i servizi sociali potevano fare ben poco.
La famiglia aveva provato a parlarne con lei durante i sempre più rari momenti di lucidità. Le avevano chiesto perché avesse scelto l’assenza, cosa provasse in quel torpore e che cosa ci fosse di così invitante in un simile stato. Le volte che rispondeva – non molto spesso – distoglieva lo sguardo con un sorriso timido, arrossendo. «Be’, ecco, non si parla di certe cose in compagnia».
Il che portò una delle nipoti più grandi, quella che frequentava l’università, a suggerire: «Forse ha delle fantasie sessuali laggiù», guadagnandosi all’istante un pugno sul braccio da parte del fratello più piccolo.
«Che schifo!» protestò. «Stiamo parlando della nonna».
«Cosa c’è di incredibile? Cioè, guardiamo in faccia la realtà. Chi di noi si sveglia di proposito da un sogno erotico? È per questo che non vuole stare qui. Ecco perché non ne parla. Io non lo farei».
La figlia estraniata, la madre della ragazza, si voltò ad occhi sgranati verso il fratellastro che le rispose con un cenno di intesa, poi scrollò le spalle.
La badante, l’unica davvero religiosa fra tutti, era convinta che lo stato catatonico della padrona di casa non fosse un malessere – quale essere umano si sarebbe mai ibernato di propria volontà? – ma piuttosto un dono di Dio. «Ha delle visioni, ne sono certa. Un giorno tornerà con una profezia. Tutti moriamo, ma solo i prescelti raggiungono le vette più alte in questa vita».
La badante aveva accettato il ruolo di donna di compagnia chiesto dalla famiglia e continuava a trascorrere le giornate come sempre. Sistemava le decorazioni della donna in base alle stagioni e alle festività: il villaggio di Babbo Natale sul tavolino a dicembre, la collezione di coniglietti in ceramica a Pasqua. La famiglia aveva notato i piccoli cambiamenti che aveva apportato, come la scena della natività mai stata lì, oppure la statuetta logora di un pastore che sembrava la brutta copia di Gesù, impegnato a prendersi cura delle pecorelle di legno in primavera. Questi inequivocabili segni di devozione non infastidivano la famiglia, dato che l’assenza di fede della donna dormiente era sempre stata nient’altro che questo: un vuoto. Lei non si era mai espressa a riguardo, né in bene né in male, quindi perché non convertirla durante il riposo? Tolleravano le preghiere ad alta voce che la badante recitava al suo capezzale e le non proprio furtive spruzzate di acqua santa sui capelli, e avevano continuato a pagare la donna per il lusso di doversi occupare della signora dormigliona solo in modi astratti. Di manodopera, ormai, non aveva più bisogno.
La figlia non estraniata della donna, quella senza eredi propri, era una capoufficio nota per il talento di agevolare ogni confronto, e aveva portato con sé un blocco gigante di carta riciclata, pennarelli e cavalletto. «Tracciamo un diagramma di Venn confrontando le cose positive nella vita da sveglia con quelle negative, così vediamo di trovare un accordo su come procedere, ok?» Il soggiorno fu pervaso da mormorii di approvazione e i membri della famiglia si sistemarono di fronte al cavalletto. La figlia modello disegnò due cerchi intersecati, con il segno più da un lato e il segno meno dall’altro.
«Avresti dovuto fare l’insegnante» disse la sorella.
«Non è mai troppo tardi!» rintoccò il pronipote di secondo grado.
«Tu dici?» li punzecchiò uno dei fratelli maggiori dell’anziana donna, che non vedeva la sorella da almeno otto anni.
La figlia modello intervenne. «Restiamo concentrati, per favore. Alzate la mano quando vi viene in mente qualcosa, e io vi darò la parola mentre scrivo, così non vi parlate sopra».
La prima idea arrivò da un nipote. «Be’, ha noi».
«È negativo o positivo?» osservò il cugino.
«Tieni i commenti per te» disse la figlia mentre scriveva «noi» sul lato del più.
«Il cibo» disse un altro fratello della donna, ritenuto da tutta la famiglia grasso ma felice. «Pensate a tutte le cose buone che si sta perdendo».
«Però aveva problemi di peso» fece notare la figlia estraniata. In effetti, da quando dormiva, la silhouette della donna era diventata quasi snella anche se, per colpa della posizione orizzontale, la differenza si notava a fatica. La figlia preferita scrisse «mangiare» sotto il segno più e «dieta» sotto il meno.
«Be’, era depressa. Questo sarebbe negativo».
«Sì, ma non la chiamerei proprio Depressione con la d maiuscola. Non era malata».
«Non dovremmo usare il diagramma di Venn, non abbiamo niente nel mezzo. Dovremmo disegnare solo due colonne».
«E l’essere libera da ogni preoccupazione?»
«No, va favore del sonno. Devi associarlo al fatto di essere sveglia, altrimenti non ha senso. Ad esempio “ansia”, che andrebbe sotto il meno».
«Nuove esperienze» disse un altro nipote.
«Ripeto: dobbiamo per forza equiparare “nuovo” a “buono”?»
«Almeno non è noioso».
Alla fine della riunione il grafico si presentava così:
+ | – |
Noi | Dieta |
Mangiare | Sentirsi triste |
Nuove esperienze | Artrite |
Vita sociale (se fosse uscita) | Nessuna relazione romantica |
Capacità e soldi per viaggiare (se avesse voluto) | Ansia |
Appuntamenti online | Non andiamo a trovarla spesso |
Sesso (in teoria) | Diceva sempre di sentirsi «poco amata», anche se le dicevi «ti voglio bene» dritto in faccia |
Magari nel sonno il sesso viene meglio* |
*Opinione non unanime.
«Ecco qui» concluse la figlia estraniata. «Ci sono più lati negativi che positivi nella sua vita. Dobbiamo fare qualcosa».
«E se le facciamo una festa?» disse uno di nipoti più piccoli, ancora alle elementari. «E se decidiamo che ogni venerdì è la “Giornata della nonna” e le promettiamo di passare?»
«Non credo che i lati negativi debbano avere lo stesso peso di quelli positivi. I positivi si difendono bene, a confronto».
«Siamo di nuovo al punto di partenza…»
«No, dai. Abbiamo messo su carta i pro e i contro. Tutto appare sempre più immediato e chiaro quando si osservano i problemi in modo concreto».
Nell’affanno di visualizzare le difficoltà, nessuno notò il nipotino più piccolo dell’anziana, il bambino di soli tre anni dell’unico figlio maschio biologico (che aveva contribuito a malapena al grafico), allontanarsi dal dibattito e sgattaiolare verso il retro della casa, salendo dallo sgabello sul letto matrimoniale della nonna. Si era divorato tutti i cartoni animati della sorella maggiore e aveva come l’impressione che si trovassero dentro la trasposizione reale della Bella Addormentata nel bosco, anche se ammetteva che in questa versione l’incantesimo aveva colpito una vecchia megera e non una giovane principessa nubile. Aveva sempre desiderato osservare da vicino una persona anziana senza essere visto, per studiare con attenzione i tratti propri di quell’età, come i peli che germogliavano dalla protuberanza sferica che la nonna aveva sul mento.
La bocca della donna era aperta e molle, le rughe delle labbra si stringevano salde in una smorfia di sdegno. Emise una lieve ronfata accompagnata dal fetido alito secco mattutino di qualcuno che ha dormito per trenta albe di fila. Il nipotino le si avvicinò al volto, vicino abbastanza da sentire il suo stesso alito dolce rimbalzargli indietro, ed era sul punto di darle un bacetto sulla guancia scoperta, convinto di essere l’unico ad avere il potere di sciogliere l’incantesimo e risvegliarla dalla trance persistente, quando, all’ultimo, esitò. Vide le palpebre agitarsi e gli occhi ribaltarsi avanti e indietro nelle orbite sotto le membrane sottili.
Per un attimo considerò l’ipotesi che potesse aver ricordato male la storia della Bella Addormentata – le versioni sembravano mescolarsi l’una con l’altra. Che forse, alla fine, fosse la strega a cadere nel sonno eterno come punizione per aver imprigionato la principessa? Forse la nonna era la cattiva e non la vittima, come credeva poco prima. Cercò di riportare alla memoria qualche gesto di tenerezza che lei potesse avergli rivolto in passato, ma non ricordava nulla del suo precedente stato di veglia. In mente, aveva immagini annebbiate di pieghe di grembiule, biscotti appena sfornati, ma non poteva dire con certezza se quelle scene fossero reali o se stesse ricordando un’altra favola, forse quella di Hansel e Gretel. A dire il vero, in uno scenario simile, non solo gli era venuto il dubbio che la strega fosse lei ma aveva anche l’angosciante impressione di essere – grazie al potere di sciogliere l’incantesimo – l’unico protettore della famiglia. Era lui il vero eroe.
Il bambino si tirò indietro, scivolò giù dal bordo del letto appoggiando i piedi e toccando le assi del pavimento con addosso la sconvolgente sensazione di una catastrofe evitata per un pelo, simile al sollievo dopo un mancato incidente, e tornò in salotto come se niente fosse. Erano ancora tutti lì a discutere se lei avesse gettato la spugna o avesse iniziato a vivere davvero solo allora.
La donna giaceva nella sua stanza completamente immobile, a parte la palpebra dal lato appena liberato dal nipotino, il cui residuo alito mieloso aleggiava nell’aria stagnante. E se qualcuno avesse guardato in fondo a quell’occhio, proprio dentro la tonda, sepolta materia oscura della pozza nera del tutto dilatata, avrebbe trovato delle risate, e ne sarebbe stato attratto come dal collasso di una stella di neutroni morente – sempre più vicino, sempre più giù – fino a venire totalmente risucchiato.
Titolo originale, Everybody Dies, copyright @ Marléne Zadig, all rights reserved.
Traduzione di Valentina Pandolfi.