IN CUI SI PARLA DI: una terra di uomini ostinati, metalli preziosi, Virgilio su una Subaru polverosa, l’Uptown e the Flats, porosità acquose, faglie acquifere, idee strampalate, evacuazione fortuita, lievito assorbi-ferro, minatori, la terza statua più alta d’America, castori intraprendenti.

Una miniera di rame allagata alla periferia di Butte, in Montana, oggi è lo specchio d’acqua contaminata più grande del Paese. E contiene una melma che potrebbe salvare non solo la miniera e la città, ma forse perfino il mondo intero.

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer numero 13, autunno 2015

Se venite da Seattle, come me, vi avranno detto sin da piccoli che il Montana è grande, turistico e pieno di uomini ostinati che hanno deciso di ritirarsi a vita privata. Vi avranno parlato del ghiacciaio, di Yellowstone, dei «vaghi» limiti di velocità sulle interminabili statali, e del cielo senza fine. E delle poche grandi città dello Stato vi avranno fornito soltanto qualche dettaglio: c’è Helena, la capitale, c’è Missoula, la roccaforte dei liberali e poi c’è Butte con la sua miniera di rame allagata – lo specchio d’acqua tossica più grande d’America, il Berkeley Pit – che dai cittadini è considerata alla stregua di un monumento, un doloroso ricordo del prezzo dell’industrializzazione e, dai forestieri un’inesauribile fonte di curiosità. Il Montana è un posto strano, sterminato. È il quarto Stato più grande del Paese, ma il quarantottesimo quanto a densità di popolazione. È un luogo in cui si può ancora pagare la spesa con un assegno, in cui i bar vantano attrazioni come «vere sirene» e gli americani – così come i prodotti di scarto dell’industria mineraria – sembrano stati abbandonati al loro destino.

Diversi anni fa chi raggiungeva Butte dalla I-90 veniva accolto da innumerevoli cartelloni pubblicitari che consigliavano una sosta al Berkeley Pit, definito come luogo di «inquinamento storico» che valeva la pena visitare. Un’enorme buca piena di acqua acida, affermavano i cartelli, non è poi troppo diversa da un campo di battaglia o un forte in rovina risalente a qualche vecchia guerra. In seguito, però, l’amministrazione di Butte si rese conto che pubblicizzando quella buca come attrazione turistica rischiava di infangare il buon nome della città, e fece rimuovere tutti i cartelli. Ciò nonostante, ancora oggi i visitatori possono raggiungere un punto d’osservazione e godersi la vista mozzafiato su una delle più grandi calamità provocate dall’uomo nell’America del XX secolo. Per la modica cifra di due dollari.

La storia della città di Butte è eroica e romantica, e ha quel sapore nostalgico da saga di frontiera che ricorda molto Angolo di riposo, il romanzo di Wallace Stegner. Dopo il fallimento della corsa all’oro, negli anni Cinquanta dell’Ottocento, la città venne praticamente abbandonata: con poche leggi non scritte a mantenere una parvenza di ordine e senza alcuna vena aurifera nel sottosuolo, infatti, quasi tutti decisero di fare i bagagli. Ma nel 1882 i minatori al soldo di un imprenditore perseverante di nome Marcus Daly, una sorta di re Mida del rame, individuarono una gigantesca vena di metallo bruno e in breve tempo Butte ne divenne la principale produttrice di tutto il Nord America e, per alcuni anni, perfino del mondo intero.

All’epoca della mia prima visita ero ovviamente a conoscenza della grandiosa vena di Butte e della buca scavata per sfruttarla. Inoltre conoscevo la parola eternità, che secondo l’EPA (l’Agenzia Americana per la Protezione dell’Ambiente) era il tempo che ci sarebbe voluto per rimediare ai danni di quello scavo sciagurato. Eternità è una parola potente, sterminata, e sta a significare una vita intera: nel nostro caso, una vita di cicatrici inflitte alla terra tramite un’opera di scavo eseguita senza alcuna regolamentazione. Tutti si portano dietro le proprie croci, questo lo sappiamo. La gente di Butte non fa eccezione e la sua croce è Berkeley Pit.

Quando ho conosciuto Joe Griffin, rappresentante del Dipartimento di Qualità Ambientale per lo Stato del Montana, sono salita sulla sua auto senza neanche sapere dove mi avrebbe portato. Griffin, il mio personale Virgilio su una Subaru polverosa, mi ha guidato lungo una strada tutta curve attraverso i quartieri scarsamente popolati della periferia di Butte, costellati di casette sprangate con le assi, auto arrugginite e resti scheletrici di bar ed esercizi commerciali, con le insegne ormai inutili che ancora oscillavano nella brezza estiva.

Alla fine ci siamo fermati davanti alla miniera Diamond, circondata da una recinzione metallica chiusa da una pesante catena. L’aria era calda, sembrava di essere alle terme, e lo zolfo mi si appiccicava ai capelli e ai vestiti come il fumo dei falò da campo. Ancora non lo sapevo, ma il motivo per cui eravamo lì non era osservare l’antico castelletto d’acciaio a forma di mantide che un tempo permetteva a uomini e cavalli di spingersi sottoterra per quasi un miglio, né ammirare il suolo, ricco di feldspato e pirite, che luccicava come una palla da discoteca. No, eravamo lì per il Berkeley Pit, che a prima vista somigliava tantissimo a un vero lago. Lo immaginavo pieno di barche a vela, pesci e bagnanti.

Urbanisticamente Butte non ha alcun senso. La zona che i più considererebbero la «Downtown», con alti edifici, musei, bar, ristoranti e palazzi governativi, a Butte si chiama «Uptown», perché situata più in alto rispetto al resto della città. E il resto è chiamato «the Flats», le pianure, una valle costellata di supermercati e concessionarie. Nella Uptown il centro metropolitano è un capolavoro di art déco, un’area di appena sei isolati che ospita un ammasso di edifici considerati patrimonio nazionale, eleganti e imponenti come un tempo lo erano quelli di Wall Street. Ma quello spettacolo grandioso è messo in ombra dalla sinistra cava che, come una punta di freccia lunga un miglio e larga mezzo, i contorni precisi, squadrati, tanto da sembrare incisi col diamante, incombe come un fantasma sulla città, piena di acqua talmente marrone da sembrare fango.

Il danno rappresentato da quella fossa per il paesaggio – un danno incommensurabile e pericolosamente vicino al centro abitato – è esemplificativo del saccheggio perpetrato su queste terre nel corso della storia. La scoperta del rame nel sottosuolo di Butte coincise infatti con lo sviluppo della lampadina a filamento di rame, un’invenzione che per essere prodotta in massa aveva bisogno di enormi quantità di metallo. All’epoca il Montana non era ancora uno Stato e non lo sarebbe ufficialmente diventato per un altro secolo circa, così le compagnie minerarie poterono perseguire i propri interessi senza sottostare ad alcuna regolamentazione. Butte divenne un formicaio. Furono scavate la bellezza di diecimila miglia di tunnel sotterranei, più o meno la distanza che separa New York da Singapore.

Una pratica comune in quelle vecchie miniere era l’arrostimento, per cui si utilizzava il calore per convertire i solfuri della roccia in ossidi, che potevano poi essere fusi e raffinati in prezioso minerale grezzo. Nel processo si dava fuoco a mucchi di roccia grandi come un isolato cittadino, che poi venivano lasciati bruciare per giorni. Ne scaturivano enormi nuvole di fumo nero. Le scorie ferrose, una disgustosa poltiglia, venivano scaricate nei corsi d’acqua più vicini (il Silver Bow Creek, che attraversa Butte, divenne una discarica naturale per i prodotti di scarto delle miniere). Il fumo dell’arrostimento pervadeva ogni angolo della città e gli abitanti si lamentavano di non riuscire a vedere neppure da un marciapiede all’altro. Il bestiame moriva per avvelenamento da arsenico. Gli alberi smisero di crescere.

Nel 1955 la Anaconda Copper, la più grande compagnia mineraria di Butte, adottò la tecnica degli scavi a cielo aperto, che prevede un processo di terrazzamento via via sempre più profondo, con lo scopo di creare una sorta di foro a spirale. Fu la Anaconda a scavare il Berkeley Pit – una cava talmente grande da poter ospitare comodamente la Torre Eiffel – vicino al centro della Uptown di Butte, portando via la casa a centinaia di famiglie e rovinando il morale a tutta la comunità.

I problemi ambientali verificatisi a Butte vennero aggravati dall’emergere di alcune complicazioni geologiche. Per cominciare, il terreno sotto la città è un acquifero alluvionale composto da strati porosi come le rocce ornamentali degli acquari. In un terreno del genere si trovano in abbondanza minerali come la pirite, un minerale simile all’oro che, quando viene esposta all’aria e all’acqua, produce acido solforico. Essendo però l’acquifero alluvionale inadatto agli scavi, le compagnie minerarie spesero molto tempo e denaro per pompare via l’acqua in modo da costruire le miniere. In questo modo i minatori poterono scavare i loro tunnel e, grazie agli accorgimenti presi, la pirite rimase asciutta. La svolta arrivò alla fine degli anni Settanta, quando la compagnia ARCO comprò la Anaconda. All’epoca il prezzo del rame era al suo minimo storico e, per risparmiare denaro, la ARCO mandò in pensione le vecchie pompe, ormai obsolete. L’acqua riprese a filtrare nel terreno e raggiunse la pirite: l’acido solforico prodotto andò a mescolarsi agli agenti inquinanti già presenti. Nel 1983, quando anche l’ultimo tunnel fu allagato, restava da riempire soltanto la cava.

Nella classifica delle catastrofi minerarie il Berkeley Pit occupa una posizione modesta. Se ne sono viste di peggiori. La miniera di rame del Bingham Canyon, ad esempio, nei dintorni di Salt Lake City, è grande tre volte tanto. Intere città minerarie – ricordiamo Centralia, in Pennsylvania – sono state evacuate perché nei tunnel delle miniere, scavati sotto l’asfalto, da anni bruciavano roghi inestinguibili. Certo, Griffin e io stavamo osservando un disastro ambientale di proporzioni importanti e, anche se non raggiungeva la portata biblica di altri negli Stati Uniti, era pur sempre il più grande specchio d’acqua contaminata del Paese, ad appena un miglio a piedi dal centro città, talmente vicino che si poteva visitare tranquillamente durante la pausa pranzo. Oggi il Berkeley Pit è ammantato anche da un senso di urgenza che altrove non si respira: il livello dell’acqua, infatti, sta salendo. Se dovesse raggiungere quello che l’EPA ha definito «punto critico» (cosa che, salvo interventi, dovrebbe avvenire nel 2023), l’acqua invaderebbe il tetto della falda acquifera. Per impedire questa eventualità la soluzione che è stata adottata prevede di pompare via l’acqua e depurarla. In eterno.

È improbabile che un giorno il Berkeley Pit costringa il governo a evacuare Butte. Tuttavia, per fare in modo che il rischio rimanga contenuto, occorreranno milioni di dollari e tanta, tanta attenzione fino alla fine dei tempi, in una sorta di gara di velocità tra l’uomo e la cava. In questo senso tutto il Montana sud-occidentale rappresenta un grosso problema a livello ambientale: è costellato di miniere abbandonate – secondo le stime, ventimila – tutte pericolose per l’ambiente e tutte erette sulla medesima faglia acquifera, che si estende fino all’oceano Pacifico.

«Se vogliamo progredire come società, come civiltà, abbiamo ancora bisogno del rame. Il progresso non si ferma. Nessuno vuole rinunciare a niente, neppure gli ambientalisti. È un dilemma» mi disse Griffin. Nel frattempo nella baia di Bristol, in Alaska, una delle ultime falde acquifere incontaminate degli Stati Uniti, nonché terreno di riproduzione di molte specie di salmone a rischio estinzione, era da poco stata proposta la costruzione di una nuova miniera di rame, la Pebble Mine.

«Ovviamente questa situazione non si risolverà. Se ci pensi, dove diavolo possiamo metterla tutta quest’acqua? Rimarrà qui per sempre, vedrai» commentò Griffin. La calura estiva premeva su di noi mentre la cava ci osservava minacciosa da lontano, ai confini di Butte.

Volevo assicurarmi di aver capito bene, accertarmi che Griffin avesse utilizzato davvero le parole «per sempre», così consultai un idrogeologo. Nick Tucci, che aveva lavorato al Berkeley Pit per quasi un decennio, mi chiarì alcuni punti. Si era trasferito a Butte nel 2003 per conseguire la laurea specialistica in geoscienze alla Montana Tech, un avamposto della University of Montana e una delle facoltà di geologia più importanti degli Stati Uniti. Per lui Butte, con la sua miniera allagata, era il luogo perfetto da studiare. Tucci mi parlò con sincerità e profusione di dettagli, riuscendo a farmi capire tutto alla perfezione (tanto che avevo quasi la sensazione di affrontare con lui un argomento più banale come, che so, il clima).

«Non esistono tecnologie, al momento, in grado di impedire all’acqua di infiltrarsi nelle pareti della cava» mi disse. «Credo che a qualsiasi strumento si ricorra, saremo costretti a continuare a pompare e depurare l’acqua per sempre. Ora come ora non siamo assolutamente in grado di ripulire il Berkeley Pit».

Ciò nonostante qualcuno ci aveva provato. Quando lavorava per il Montana Bureau of Mines and Geology, Tucci aveva distribuito dei campioni d’acqua presa dal pozzo a vari scienziati (alcuni dei quali, a dire il vero, autoproclamatisi tali), tutti ansiosi di provare a risolvere il problema. Tucci si era ritrovato a valutare trovate di ogni tipo, dalla più strampalata ad alcune davvero brillanti. «Un tizio voleva usare i cristalli. Diceva che non sarebbe riuscito a depurare l’acqua, ma che posizionando le pietre in un certo modo ne avrebbe modificato le molecole così da eliminarne la tossicità. Era convinto che avrebbe funzionato e ce l’avrebbe dimostrato bevendo l’acqua da lui trattata».

Un altro aveva pensato di far evaporare tutta l’acqua del pozzo con l’ausilio di specchi, o di riversarla sui campi con degli irrigatori, dove sarebbe successivamente evaporata. Quel metodo aveva effettivamente funzionato con altri laghi artificiali, ma il problema della qualità dell’acqua non veniva affatto risolto. Un’idea che a Tucci era piaciuta, ma che tuttavia aveva giudicato inapplicabile per via dei costi elevatissimi, prevedeva di riempire il pozzo di scarti terrosi provenienti dalle miniere. In quel modo l’acqua avrebbe dovuto comunque essere pompata via in eterno, ma se non altro l’area superficiale della cava poteva essere utilizzata per altri scopi.

Senza porsi l’obiettivo di rimediare al danno fatto, molti scienziati hanno utilizzato la cava come laboratorio per tutta una serie di esperimenti. Andrea e Don Stierle, ad esempio, chimici organici e vecchi amici sia di Griffin che di Tucci, cominciarono a interessarsi allo scavo quando si trasferirono a Butte da San Diego. Don doveva insegnare al Montana Tech mentre Andrea, che inizialmente voleva diventare chimica dei prodotti marini naturali, decise di esplorare lo specchio d’acqua più grande di Butte. Non è insolito per uno scienziato studiare i batteri che proliferano negli scarti minerari, ma nessuno aveva mai considerato l’acqua acida prodotta dalle miniere un ambiente in grado di supportare la vita. Ad Andrea, invece, non sembrava un’idea così campata in aria e le poneva davanti una sfida rischiosa ma affascinante: «Nessuno ha mai cercato nei rifiuti tossici la presenza di un batterio o un fungo che potesse produrre metaboliti secondari con attività biologica potenzialmente utile. A me sembra un’ottima idea!» I risultati le diedero ragione.

Dopo molti, vani tentativi di isolare qualche organismo vivente nell’acqua della cava, uno stormo di oche delle nevi una notte decise di posarsi sul lago artificiale per dare sollievo alle ali dopo aver attraversato una tempesta. Poco dopo nell’acqua iniziò a formarsi una specie di lievito nero che prima dell’arrivo dei volatili non c’era. Andrea spedì quella nuova coltura in un laboratorio e scoprì l’inaspettato: quel lievito sembrava un prodotto dal retto delle oche. Per anni gli scienziati avevano gettato senza successo materia organica nell’acqua nel tentativo di generare la vita. La notte della tempesta lo stormo di oche, resosi conto che quella su cui si era posato non era proprio acqua, volò via. Quando gli uccelli spiccano il volo svuotano le viscere, per alleggerirsi e facilitare il decollo. In quell’occasione l’evacuazione simultanea di un intero stormo riempì la cava di materia biologica. Gli escrementi di oca avevano fatto nascere la vita dalle scorie tossiche.

Prima di scoprire i lieviti Andrea Stierle aveva già collezionato diversi successi in carriera. A San Diego aveva conseguito il post-dottorato allo Scripps Institution of Oceanography, e negli anni Novanta aveva scoperto nella corteccia del tasso del Pacifico un fungo che produceva il taxolo, un principio attivo in grado di combattere il cancro. Il suo campo di studi prendeva in esame le micro forme di vita e Andrea aveva sempre lavorato riducendo tutto a proporzioni minuscole per individuare l’eventuale presenza di attività biologica.

Nel Berkeley Pit aveva deciso di cercare vita biologica che potesse avere proprietà curative simili a quelle del taxolo. Il lievito si rivelò promettente da quel punto di vista, perché produceva alcuni effetti su certi tipi di cellule cancerogene delle ovaie. Ben presto, tuttavia, la Stierle scoprì che aveva un effetto collaterale entusiasmante: assorbiva i metalli dall’acqua del Berkeley Pit.

Come si è detto, la pirite che infesta il sottosuolo di Butte genera acidi, i quali danno vita ad agglomerati metallici che intasano i filtri e si accumulano nelle cave. Nel caso del Berkeley Pit, gli agglomerati in questione sono ricchi di ferro (è lui il responsabile del colore rosso sangue dell’acqua). Andrea Stierle scoprì che il suo lievito «mangiava» il ferro. «È una di quelle cose che i lieviti fanno spesso, si nutrono delle scorie. Basterà prenderne una goccia in soluzione liquida e aggiungerla a qualche litro di acqua della cava. In questo modo la depureremo dal ferro, che andrà a formare una specie di composto molliccio» mi spiegò. «È straordinario. Il lievito assorbe in un baleno fino all’87 per cento dei metalli presenti nell’acqua, e nel giro di appena cinque, dieci secondi. È quasi magia».

Ero in laboratorio con lei. Davanti ai miei occhi versò qualche goccia di lievito in un beaker pieno di acqua del Berkeley Pit. «Andiamo, bello!» Fece ruotare il beaker come un bicchiere di ottimo vino, mentre il lievito si espandeva in tentacoli scuri. All’improvviso l’acqua perse gran parte della sua opacità e al centro del beaker si formò una sfera nera delle dimensioni di un piccolo pugno. Il lievito aveva assorbito i metalli che inquinavano l’acqua, che ora sembrava sufficientemente pulita da poter essere bevuta. Era una grande innovazione, una nuova speranza per Butte.

Il denaro a disposizione di persone come gli Stierle è scarsi e a Butte c’è grande penuria di posti di lavoro ben pagati, perciò io ero molto curiosa di scoprire se ci fosse qualcuno abbastanza giovane e coraggioso da dedicare la carriera a una città che, sotto ogni punto di vista, è ancora oggi economicamente depressa. Griffin mi fece conoscere Julia Crain, ideatrice di progetti speciali del Butte-Silver Bow Consolidated City-County Government e coinvolta nel programma Superfund per la depurazione perpetua avviato dall’EPA. È una buttiana di terza generazione (suo nonno ha contribuito alla costruzione di uno dei primi binari della città) ed è laureata in pianificazione urbanistica e regionale alla Portland State University.

La Crain è una donna ambiziosa e ama Butte. Tutti – Griffin, Stierle e Tucci – concordano sul fatto che se c’è una cosa buona in città, quella è Julia. Butte un tempo era un simbolo di virilità, un luogo in cui i minatori si spezzavano la schiena nei tunnel delle miniere e spendevano la loro paga nei bar e nei bordelli in superficie. Ancora oggi è un posto difficile, e l’atteggiamento burbero dei suoi abitanti può essere d’ostacolo al cambiamento. Ma Julia Crain non si è mai lasciata scoraggiare, e nel corso degli anni è riuscita a farsi assegnare milioni di dollari dal governo grazie ai quali ha costruito zone ricreative per turisti nelle aree verdi di Butte e piantato alberi lungo le strade della Uptown ¬– tutte amenità che la città non sapeva di volere finché non ha cominciato a godersele. Butte è «ostaggio della percezione che ha di sé», mi ha spiegato la Crain in riferimento alla reputazione del luogo di audace città di frontiera. Una reputazione che spesso ha messo i bastoni tra le ruote al suo lavoro.

Questo, tuttavia, non rappresenta necessariamente qualcosa di negativo. «Sappiamo che qui il dialogo è sempre vivo e che i cittadini sono coinvolti, perché ogni problema crea una disputa e il motivo è che la gente si aggrappa a ciò che ama. Non credo che si opponga all’ingresso in una nuova era, credo solo che voglia essere sicura che ci sia qualcuno in grado di proiettarli verso il futuro». A Butte il cambiamento richiede quindi un’opera di convincimento niente male, ma la Crain sa che «prima o poi» è pur sempre meglio di «mai». «Giochiamo a chiappino, sostanzialmente. Sono trent’anni che eliminiamo scorie tossiche e ci sforziamo di capire come proteggere i cittadini e permettere loro di rimanere. Quindi non è che non facciamo progressi, è solo che per farli dobbiamo scegliere un approccio diverso a causa del particolare contesto in cui ci troviamo».

Nonostante le numerose opportunità, grandi o piccole, che stanno sorgendo a Butte, nessuno sceglie di restare in città. No, chi resta lo fa per l’eterno potenziale inespresso di quei luoghi e in virtù del sistema di credenze di cui sono ammantati, proprio come ai tempi in cui il Montana faceva ancora parte della Frontiera. «Credo che ciascuno a suo modo ami questo posto, anche se non tutti sanno esprimerlo a parole, ma io so per esempio che Andrea Stierle rimase affascinata dal Berkeley Pit. E la sua ricerca è il risultato di quell’amore. Bisogna riuscire ad andare oltre la superficie, solo così la gente di qui può andare avanti. Non dico che non sia difficile, penso solo che Butte sia ancora un diamante grezzo».

Un chilometro al di sopra di Butte, su uno dei picchi del Continental Divide, sorge una maestosa statua alta trenta metri chiamata Nostra Signora delle Rocce. Ci sono voluti sei anni per costruirla e, dal 1979, il progetto si è concluso nel 1985 quando è stata montata la testa, trasportata in elicottero sulla cima della montagna. Si erge a protezione di Butte, le braccia spalancate come a volerla cingere. Dalle strade della città è impossibile non vederla. Durante una delle tante crisi economiche del centro abitato, i minatori hanno sbarcato il lunario costruendo modellini in acciaio della statua e vendendola come protettrice degli operai di tutto il mondo. È una figura strana ed erculea, come del resto ogni cosa a Butte: è la santa patrona della tenacia. Nostra Signora, la terza statua più alta degli Stati Uniti, è dipinta di un bianco abbagliante ed è il personalissimo Cristo Redentore della città. Due volte l’anno è possibile andare a vederla da vicino grazie a un bus navetta che parte dalla piazza principale.

Io sono salita su quello del mattino per evitare il sole cocente di luglio. La stretta via sterrata, l’autista pensionato e l’autobus, che aveva a sua volta un disperato bisogno di andare in pensione, erano una combinazione da incubo che mi ha accompagnato per tutti e quarantacinque i minuti di tragitto. Una volta giunta in cima alla montagna mi sono avvicinata alla base della statua, scattando fotografie senza mai riuscire a inquadrarla tutta. Intorno a me i bambini prendevano a calci i cespugli e gli adulti infilavano quarti di dollaro nei binocoli piazzati nei punti strategici, ma la maggior parte dei turisti si inginocchiava e toccava Nostra Signora, come in preghiera. I pochi con cui ho parlato durante il tragitto non erano di Butte, e neppure del Montana. Erano turisti e, in quanto operai, avevano tutte le ragioni per essere su quell’autobus: volevano porgere omaggio a una città simbolo dell’autosufficienza, un luogo i cui abitanti, per generazioni e generazioni, non aveva fatto altro che spaccarsi la schiena senza mai lamentarsi.

Senza rendermene conto ho cominciato a considerarmi anch’io una pellegrina. Quando mi trovo in un parco nazionale vengo sempre colta dalla stessa meraviglia che ho provato la prima volta che sono stata nella Penisola Olimpica, nello stato di Washington, dove mi recavo sempre d’estate da bambina. Lì la natura la fa da padrona. Ed è stato sempre in un parco nazionale, compiuti i vent’anni, che mi sono resa conto che alcune delle cose che amavo di più – l’odore acre delle felci dopo la pioggia e il fruscio delle creature che zampettano tra le foglie secche – oggi esistono soltanto in luoghi protetti dal governo.

Nel corso della mia vita la linea che separava i concetti di «natura» e «naturale» si è fatta confusa. Oltre all’uomo altri mammiferi modificano la nostra Terra: a Butte, ad esempio, alcuni castori intraprendenti hanno prosciugato le valli della zona con le loro dighe. A qualsiasi specie si appartenga, quando si fatica per ottenere ciò che si vuole a volte è impossibile non lasciarsi alle spalle qualche segno. Ma sono le scorie il mio pensiero principale, al momento. Ormai il danno è fatto, ma mi piacerebbe sapere che cosa stiamo facendo al riguardo. Come trasformiamo la nostra distruzione in creazione?

Tucci, l’idrogeologo, mi disse una cosa a cui avevo subito pensato vedendo il Berkeley Pit, ma che non avevo avuto il coraggio di formulare ad alta voce, ossia che è bellissimo. All’inizio volevo dire che era un luogo orribile, sinistro, ma le pareti color terracotta della cava avevano un che di elegante nella loro rozzezza, come le scene delle cavalcate nella polvere dei film western. «Credo che il valore scientifico del Berkeley Pit non sia quantificabile, così come ciò che possiamo imparare studiandolo» mi disse Tucci. «La gente viene qui per vederlo e capisce di cosa l’uomo sia capace. In questo modo diventa più cauta».

Il giorno della mia visita a Nostra Signora delle Rocce pensavo di non meritare un posto su quell’autobus, ma appena arrivata sotto la statua ho capito che i minatori che l’avevano costruita avrebbero voluto che anch’io la sentissi mia, che ero la benvenuta se volevo pregare ai suoi piedi. Anche se non sembra, in città come Butte c’è molto senso della comunità mascherato da indifferenza. Se all’epoca avessi capito che eravamo tutti lì per abbracciare le nostre cicatrici, le nostre sofferenze, e amare ciò che è più difficile da apprezzare, forse anch’io avrei appoggiato la fronte all’acciaio freddo di quella statua.

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Kea Krause è nata sulla costa nord-occidentale degli Stati Uniti. Vive nel Queens, a New York. I suoi scritti sono apparsi su The Believer, VICE, Broadly e The Rumpus.

Titolo originale: What’s Left Behind @ Kea Krause, 2015, all rights reserved
Fotografia @ Mariateresa Pazienza