IN CUI SI PARLA DI: donne ideali, educazione approssimativa, allegoria, rame dorato, forma della bellezza, Sorelle Singhiozzo, braccia della Venere di Milo, Armory Show del 1913, una copertina del Sunset Magazine, diciassette martellate in testa, fare arte in un mondo ostile, cadute rovinose, una tomba senza nome.

Il crudele destino di Audrey Munson, secondo cui la bellezza fisica poteva rendere quanto un bond governativo ed essere pericolosa come una maledizione.

Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, numero 112, estate 2015

 

Audrey Munson nacque l’8 giugno del 1891 a Rochester, stato di New York, da Katherine ed Edgar Munson. Tutti si aspettavano che la sua vita prendesse il tipico corso di quella di una donna dell’epoca che viveva nelle zone rurali, che sarebbe cresciuta con forte senso morale in una famiglia virtuosa ricevendo un’educazione approssimativa. Al momento giusto avrebbe sposato un uomo per bene e si sarebbe creata una famiglia sua, conducendo una vita semplice tutta famiglia e focolare domestico. L’America si stava plasmando sulle spalle di donne che vivevano secondo quegli ideali.

Tuttavia esisteva un’altra possibilità, che Theodore Dreiser illustra alla perfezione nel suo romanzo del 1900, Nostra sorella Carrie, nel quale l’eroina conduce un’esistenza moralmente ambigua e, donna delle campagne, approda in città, dove diventa concubina e attrice. Come Carrie, anche ad Audrey spettava un destino ben più crudele e bizzarro di quello previsto per le donne della sua epoca.

Fu lei stessa a riferire ai giornali l’episodio, forse realmente accaduto, in cui le veniva predetto un futuro straziante. Da adolescente era attratta dalle arti, e trascorreva le proprie estati esibendosi al parco dei divertimenti di Rocky Point, Rhode Island. Forse fu lì che incontrò la fantomatica zingara che le disse: «Quando credi che la felicità sia nelle tue mani, che i frutti morti del suo mare si tramutino in cenere nella tua bocca». Proclamò poi che la sua bellezza l’avrebbe portata alle stelle e che la stessa bellezza l’avrebbe atterrata.

La storia della maledizione della zingara rispunta spesso nel corso della vita di Audrey. La menziona nelle interviste, quando ancora la definivano la «ragazza da esposizione» – musa ispiratrice dell’Esposizione internazionale Panama-Pacifico di San Francisco – e, in seguito, nei tragici racconti concessi a Movie Weekly, quando ormai la sua carriera era in declino. Forse ci credeva davvero, a quella storia, la intendeva come esemplificazione del percorso che aveva portato una ragazza venuta dal nulla a diventare l’icona degli anni Dieci, «la Regina degli Artists’ Studios», «Miss Manhattan», «la donna dalle forme più perfette del mondo», la modella adolescente che aveva conquistato l’immortalità grazie al suo corpo, un capolavoro di bellezza che forniva ispirazione ai migliori artisti e scultori dell’epoca Beaux Arts le cui opere ancora oggi attirano l’occhio di tutti a New York.

Era un’epoca di allegorie, quella, e nella città di New York stavano comparendo gli edifici e le sculture che, con i loro nomi e rappresentazioni delle forme femminili, definivano gli ideali su cui la grande metropoli era stata edificata: virtù, purezza, abbondanza, fama. Ben presto le vette della città furono incoronate dal volto e dal corpo di Audrey, rivestiti di rame dorato, ma quando le sue sembianze furono erte a guardia dei cinque distretti, ormai Audrey aveva lasciato New York e viveva dietro le mura di un istituto di igiene mentale, dove avrebbe trascorso gli ultimi sessant’anni della sua vita, sola e dimenticata. La sua è una storia di fortuna svanita e folgorante talento, grandi altezze e vertiginose cadute – come quella di Marilyn Monroe negli anni del jazz e della dissolutezza di Jay Gatsby. Era una ragazza condannata da un corpo che le aveva portato fama e lavoro, ma che alla fine le si sarebbe rivoltato contro.

Audrey sapeva essere ugualmente ordinaria e radiosa. Quando sorrideva, ad esempio, le sparivano gli occhi, e aveva denti troppo grandi. Tuttavia, se si metteva in posa, il suo volto faceva girare la testa – le guance dalle linee delicate, come il corpo di un violino, gli zigomi che attiravano la luce e rivelavano che aspetto avesse un volto umano dalla perfetta simmetria. I suoi seni a goccia, pieni, alti, di quelli che spingono gli uomini a imbracciare le armi e a lottare in difesa della libertà, erano accentuati dalla lunga linea del corpo, e completati dalla curva perfetta delle natiche. Vantava anche due fossette di Venere nella bassa schiena, che si dimostrarono «preziose quanto bond governativi», come dichiarò in un’intervista.

Prima di diventare una stella, Audrey era un’adolescente qualsiasi che abitava in un appartamento in affitto a New York, esercitandosi a fare la modella. Quando non lavorava nello studio di qualche artista, nuda, tremante, indolenzita e preoccupata di mantenere il proprio corpo in posizione, se ne stava seduta sul letto, con i piedi sul pavimento e un sasso davanti. L’esercizio consisteva nell’afferrare il sasso con le dita dei piedi. Cominciando con il piede sinistro, lo sollevava fino al polpaccio, i muscoli tesi. Afferrava il sasso duecento volte per parte, per quasi un’ora, come le aveva consigliato lo scultore Karl Bitter, il quale le aveva detto che a ciascun movimento i suoi piedi avrebbero assunto sempre più la forma della bellezza pura. Se ne sarebbe accorta, le aveva detto. Seduta sul letto, però, lei si guardava i polpacci e non notava alcun cambiamento.

Quando compì quindici anni, i suoi genitori divorziarono. Suo padre rimase nella piccola frazione di Mexico, nella zona ovest dello Stato di New York, e sua madre Katherine portò con sé la figlia su un vagone di seconda classe. A New York trovò lavoro in un negozio di corsetti e Audrey si iscrisse a scuola di musica, sognando una carriera nel mondo del teatro. Gli scrittori dell’alta società ritenevano il divorzio il passo definitivo con cui una giovane donna intraprendente poteva migliorare la propria situazione (come Edith Wharton nel suo The Custom of the Country del 1913), tuttavia quella strada per Katherine si dimostrò difficile da percorrere e non riuscì a risposarsi.

Un giorno, mentre Audrey se ne stava «di fronte alla vetrina di un negozio sulla Fifth Avenue di New York» e si chiedeva se, «una volta cresciuta fino a disporre di denaro» tutto suo, sarebbe stata in grado di «permettersi alcuni dei costosi cappelli di quella vetrina», il destino ci mise lo zampino. Un fotografo la fermò e le chiese che cosa ne pensasse di posare per lui nel suo studio. «Mi spiegò che non voleva tediarmi, ma che era un fotografo e che il mio viso era proprio quello che desiderava fotografare da tempo» ricordò anni dopo Audrey. Le disse di portare pure sua madre, prova sufficiente della bontà delle sue intenzioni.

Il fotografo, che a quanto pare si chiamava Ralph Draper, mostrò le foto di Audrey allo scultore Isidore Konti che, pur non avendo bisogno di una modella adolescente, volle organizzare subito un incontro. Prendendo il tè con Audrey e sua madre, tuttavia, ebbe un’ispirazione: chiese alla ragazza di alzarsi e camminare per lui. Colpito dalla sua grazia, le domandò di posare nuda nel suo studio. «Aveva un lavoro incompleto su cui sbatteva la testa da tre anni e che non era mai riuscito a finire, perché non trovava la modella giusta» scrisse Audrey. Sua madre acconsentì, e iniziarono le sessioni di posa che portarono alla realizzazione di Three Graces, statua che ha troneggiato per decenni nella lobby dell’Hotel Astor, oggi demolito.[1] Audrey definì quell’opera «un ricordo del consenso di mia madre».

Da quella prima seduta con Konti l’ascesa di Audrey fu rapida. Grazie a una lettera di raccomandazione dell’artista, riuscì a presentarsi ad altri scultori e pittori, e presto iniziò a lavorare stabilmente. Molti dei suoi clienti avevano lo studio al 55 di West Tenth Street, una fucina di scultori e artisti nella New York delle Beaux Arts.

All’età di sedici anni Audrey conobbe Adolph Weinman, che le disse: «Sei piuttosto greca come fattezze, eppure possiedi quel calore nel movimento che tanto ama il pubblico moderno». Ad ogni modo aveva bisogno di vedere che aspetto avesse da nuda, perciò le chiese «bruscamente» di svestirsi. «Voglio vedere che doni ti ha dato madre natura. Togliti i vestiti!» Audrey era titubante, ma decise di mostrare «un po’ di faccia tosta»: si spogliò dietro una tenda e uscì a mostrare le sue forme a Weinman. «Dopotutto, pensai, sono solo una modella, qualche chilo di carne e sangue. Non vedrà Audrey la ragazza, ma solo una ragazza, la modella». Colpito dalla «grazia» di Audrey, Weinman diede avvio con lei a uno dei suoi lavori più celebri, Descending Night, che la ritraeva con il capo chino e le mani tra i capelli, una dea discesa sulla terra.

A quei tempi la scultura era una parente stretta dell’architettura, e artisti e architetti studiavano tutti all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, perfezionando lo stile classico che aveva già dato forma a grandi città come Roma, Atene e la stessa capitale francese. Sapevano come utilizzare le tecniche di quello stile per portare gli edifici ad altezze mai raggiunte prima e il conseguimento più ambito per un artista era produrre un’opera che venisse esposta in qualche spazio pubblico.

New York era sommersa di denaro proveniente da compagnie come la Standard Oil e quelle che costruivano le ferrovie transcontinentali, e i magnati a capo di tali aziende (John D. Rockefeller, Andrew Carnegie, J. P. Morgan e Charles Schwab) avevano bisogno di sedi adeguate alla loro ricchezza. Aumentò sempre più la richiesta di edifici in stile europeo, incarnazione perfetta della crescente importanza economica e politica di New York. All’inizio del nuovo secolo a New York si registrava già un’eccedenza di esperti intagliatori di pietre, tutti immigrati dall’Italia. Il classicismo della scuola di belle arti plasmava i nuovi edifici, i quali a loro volta necessitavano di sculture degne della loro magnificenza: e cos’altro poteva rappresentare l’apice dell’umanità meglio di un corpo femminile nudo? Fu così che Audrey, la modella perfetta, di punto in bianco si ritrovò sommersa di lavoro.

A beneficiare maggiormente del denaro dei nuovi ricchi della città fu, tra gli altri, l’architetto Stanford White. I suoi edifici definirono l’architettura newyorchese del primo Novecento, ma la sua influenza si spense presto, quando nel 1906 fu ucciso dal famigerato Harry Thaw (pare che stesse difendendo l’onore della moglie Evelyn Nesbit, attrice e modella). Il caso attirò l’attenzione delle «sorelle singhiozzo» del giornalismo, reporter che, con l’esplosione del business dei giornali, iniziarono a scrivere sia di stile di vita femminile che di cruenti casi di cronaca. Fu uno dei primi veri scandali americani, che portò Thaw sotto processo e trasformò la Nesbit in una stella dei rotocalchi. Era una delle primissime femmes fatales, e la sua vita sessuale, oltre alla carriera di attrice, ballerina e modella, fu passata al setaccio. Tutto ciò avrebbe dovuto far suonare un campanello d’allarme nella testa di Audrey, mostrandole con che facilità si potesse infangare la reputazione di qualcuno.

In quel periodo, però, Audrey aveva altro cui pensare. Era letteralmente sommersa di lavoro. Faceva da modella ai più grandi scultori e pittori di New York, tra cui Alexander Stirling Calder, Daniel Chester French e Karl Bitter. Guadagnava trentacinque dollari la settimana e viveva con semplicità, in un appartamentino che divideva con la madre. L’arte per cui posava, inoltre, fu per lei il viatico verso le alte sfere della società. Quando la regina Guglielmina dei Paesi Bassi commissionò a Bitter una «Venere di Milo con le braccia», Audrey fu scelta come musa ispiratrice. Anche i Rockefeller avevano una Audrey: era stata lei, infatti, a posare per Civic Fame, una statua di rame e ferro alta venticinque piedi che Weinman aveva scolpito e piazzato in cima al Manhattan Municipal Building, a simboleggiare l’unità dei cinque distretti. Era la terza più grande statua della città, e salutava gli stanchi visitatori brillando nel cielo. Ciò nonostante, la modella di Weinman rimase «sempre anonima», come scrisse Audrey stessa sul New York American. «È lo strumento mediante il quale l’artista lavora, e nessuno le deve alcuna riverenza, sebbene fornisca l’ispirazione per un capolavoro e sia la causa diretta dell’arricchimento dello scultore o del pittore». Il massimo cui una modella potesse aspirare a quei tempi era di essere raccomandata a un altro artista, ottenere un altro lavoro, e godersi i piaceri del mestiere.

Man mano che posava, Audrey divenne un’autorità nel campo della bellezza e del portamento femminili. Un articolo la definiva «la Regina degli Artists’ Studios», e un servizio del 1913 comparso sul New York Sun la definiva «Miss Manhattan» (aveva posato per alcune sculture che finirono esposte sul Manhattan Bridge). Nelle pagine dei rotocalchi insegnava alle donne a essere belle: «Gli abiti ci hanno rovinato. Danneggiano il nostro corpo e inquinano la nostra anima. Così poche donne, oggigiorno, sanno cosa fare delle proprie mani, come tenerle quando camminano e come usarle in compagnia, perché i vestiti sono loro d’intralcio». Mentre la «Donna Nuova» – definizione nientemeno che di Henry James – trovava lavori rispettabili nell’affollata metropoli all’epoca delle suffragette, Audrey, nonostante il suo status di «intrattenitrice», predicava qualcosa di molto simile alla libertà femminile con il suo atteggiamento radicale nei confronti dei vestiti.

In un’intervista dichiarò: «Nessuna donna che sia conscia dei propri abiti è davvero femminile o bella». Per conquistare la vera bellezza, secondo Audrey, era necessario studiare e fare pratica, formulare pensieri piacevoli, «rifuggire qualsiasi esercizio atletico» ed evitare di truccarsi. Dava consigli spassionati su quel tema, ma le gemme più preziose ci arrivano da un articolo autobiografico del 1921, intitolato «La Regina degli Artists’ Studios» e uscito sul New York American. Lì scrive: «I più grandi nemici della bellezza femminile sono le giarrettiere che quasi tutte le donne indossano – giarrettiere che tengono su le calze dal corsetto o dalla cintura».

Il 1913 fu un anno fondamentale per l’arte, a New York come in tutta l’America. Gli scultori e i pittori della Beaux Arts lavoravano a opere che sarebbero diventate amatissime per la loro rappresentazione dell’umanità e delle allegorie popolari. Tuttavia all’orizzonte era spuntato qualcosa di notevolmente più innovativo, e giunse negli Stati Uniti in occasione dell’Armory Show del 1913. Oggi viene spesso considerato il luogo di nascita dell’arte moderna, e in effetti l’esposizione di quell’anno fece scalpore per il modo in cui le innovative forme d’arte europea – inclusi cubismo e fauvismo – rappresentavano il corpo umano, con linee nette e violente. Gli scultori come Daniel Chester French, dalla formazione neoclassica, cominciarono a essere considerati ormai troppo passé, poco innovativi. Anche se per Audrey il lavoro e il successo continuavano ad arrivare copiosi, l’Armory Show del 1913 fece sorgere una domanda tra gli artisti: in un mondo in cui Nudo che scende dalle scale di Duchamp aveva rischiato di provocare vere e proprie rivolte, c’era ancora bisogno di una modella dalle fattezze così classicamente greche? Almeno per il momento la risposta era sì. Eppure le morbide curve e le forme eleganti di Audrey erano in netto contrasto con il nudo di Duchamp, rappresentato in marrone e ocra, con linee e coni che, insieme comunicavano una prorompente sensualità e annunciavano a gran voce un nuovo approccio artistico al corpo femminile. «In America, così come in Francia, il cubismo, il futurismo, l’impressionismo e altri -ismi dell’arte sono diventati una moda. Io credo ovviamente che questi “nuovi” artisti siano solo dei pazzi che hanno saputo sfruttare la loro follia» scrisse Audrey nel 1921, col senno di poi, quando ormai quegli -ismi le avevano sottratto il lavoro. Raccontò anche la storia di un impressionista cubista che le disse che Mother and Child di Konti, per cui Audrey aveva posato, era un’opera tutta sbagliata perché «chi mai pensa a una madre e un bambino senza immaginare nella mente anche il padre del bambino stesso?». Quell’artista riteneva che l’occhio della mente fosse così impegnato a immaginare un padre che il classico binomio madre e figlio sarebbe dovuto risultare impressionista, sfocato.

Prima, però, che il cubismo cominciasse a dettare legge nell’arte statunitense, ebbe luogo l’Esposizione Internazionale Panama-Pacifico del 1915, dove Audrey ricevette la più grande onorificenza della sua carriera di modella. L’esposizione si tenne all’annuale Fiera Mondiale, che servì per celebrare sia l’apertura del Canale di Panama sia la rinascita di San Francisco dopo il terremoto del 1906. Audrey fu nominata ufficialmente «ragazza dell’esposizione» da Karl Bitter e Alexander Stirling Calder, responsabili del programma di scultura della fiera, perché aveva posato per molte delle oltre millecinquecento opere esposte. Quando il pubblico entrava nel padiglione dedicato, lo accoglieva un aggraziato esercito di Audrey di marmo. Immaginate la sensazione di entrare in un nuovo mondo attraverso un grandioso atrio, decorato da numerose statue della stessa donna dal volto sereno che vi segue con lo sguardo mentre percorrete il viale.

Il San Francisco Chronicle scrisse un articolo su Audrey, descrivendola come «la donna dalle forme più perfette che abbia mai posato in uno studio americano». Il giornale diceva che «non si distingueva come bellezza mozzafiato», bensì «poteva benissimo preparare il tè o una fetta di pane tostato senza darsi nessun tipo di arie». Nell’articolo Audrey dava alcuni consigli alle aspiranti modelle d’arte: «Se volete mantenere la posizione che vi siete conquistate, dovete essere donne d’affari». Sottolineava che mantenere una posa non era facile come sembrava: «Non solo bisogna studiare la persona per la quale si lavora, ma anche le sue opere e il tipo di posa che si aspetta da voi». Diceva che le ragazze che aspiravano ad avere un bel corpo dovevano condurre una vita regolare, mangiare bene, allenarsi, dormire bene e sottoporsi regolarmente a dei massaggi. «Mia madre me li ha sempre fatti. Ho scoperto che, secondo gli artisti, le modelle migliori sono quelle che hanno sempre vissuto in modo semplice e abbandonato il corsetto».

Per celebrare il suo ruolo di primo piano all’Esposizione, Audrey comparve sulla copertina di Sunset, allora una delle riviste più rinomate dell’America occidentale. Diciotto milioni di persone visitarono la fiera e si innamorarono delle sue curve immortali. I critici d’arte erano estasiati. La chiamarono «Miss Panama» e Daniel Chester French esaltò sul New York Herald la sua versatilità: Audrey mostrava la stessa grazia sia in sculture potenti sia in opere più grezze.

Non tutti, però, erano fan sfegatati della «ragazza dell’esibizione». «Questa giovane donna dovrebbe vergognarsi di se stessa» dichiarò al San Francisco Chronicle Elizabeth Gannis, fondatrice e presidentessa della National Christian League for the Promotion of Purity. «Sarà anche perfetta, come sostengono gli scultori, a livello fisico, ma questo non le dà il diritto di ostentare le sue grazie in pubblico».

I censori drizzarono le antenne, e Audrey finì sui loro radar. Era il momento ideale per rivolgere lo sguardo verso una nuova carriera: di lì a poco sarebbe diventata attrice del cinema muto.

All’epoca del cinema muto Hollywood sembrava il selvaggio West. Prima che prendesse piede il sistema degli studios, chiunque poteva aprire una compagnia cinematografica e produrre bobine da mettere sul mercato. Audrey comparve in rapida successione in Inspiration, Purity e The Girl o’ Dreams, tra il 1915 e il 1918. Tutti e tre i film la vedevano nei panni di una generica «modella d’arte» e promettevano agli spettatori la possibilità di vedere «la Famosa Modella dei dipinti e delle sculture più celebri d’America». Audrey fu la prima donna della storia ad apparire nuda in una pellicola non pornografica, cosa che le portò molta pubblicità, ma che al contempo alimentò le controversie relative ai suoi film. La nudità era mezzo esclusivamente artistico, dicevano i produttori, ma il National Board of Review ordinò di tagliare le pellicole in modo che il corpo senza veli di Audrey risultasse meno scioccante: visto solo da lontano, immobile, o scorto per un fugace istante. Inspiration fu definito osceno e, forse proprio per questo, incassò milioni di dollari ai botteghini.

Dei quattro film in cui Audrey recitò – sarebbe comparsa in un altro nel 1921, Heedles Moths – soltanto Purity è reperibile ancora oggi, sebbene la pellicola sia danneggiata. Scritto da Clifford Howard, era un’allegoria in cui Audrey interpretava due personaggi, «Virtue» e «Purity», ispirati alla sua stessa vita. Purity è musa e amante di un poeta malato che ha bisogno di denaro per pubblicare il suo libro. La ragazza viene sorpresa a fare il bagno in un corso d’acqua da un artista che le chiede di posare per lui. Lei lo fa in segreto, per soldi, per dare modo al poeta di pubblicare i suoi meravigliosi versi, ma il nuovo lavoro la porta a una festa dove è costretta a respingere le avances amorose di un altro uomo. In seguito il poeta incontra l’artista, scopre la verità, ossia che Purity ha posato per lui, e abbandona subito Purity, sebbene questa insista di aver posato solo per il suo bene, per rendere la sua vita migliore, e per far conoscere a tutti il suo genio. Chiede di essere perdonata. Il film termina con Purity e il poeta che tornano insieme.

Secondo il New York Times nel film la figura di Audrey Munson viene «sistematicamente e accuratamente sfruttata». La pellicola fu proiettata al Liberty Theater di New York mutilata dai numerosi tagli operati dalla Motion Picture Commission, che aveva il potere di bloccare l’uscita dei film che non rispettavano determinati standard. A livello morale Purity li rispettava, ma a livello artistico, be’, era tutto un altro paio di maniche. I recensori del Times conclusero infatti che, dopo il ricongiungimento finale tra Purity e il poeta, «dalla semplicità dei versi poetici che compaiono sullo schermo si evince che il fine non abbia giustificato i mezzi». In un’intervista a Howard pubblicata nel 1928 sulla rivista Close Up, il giornalista scrive: «Non si faceva che parlare di quel film, dei suoi pro e dei suoi contro. Anziani di ambo i sessi andavano a vedere la pellicola e uscivano indignati dal cinematografo, mentre uomini e donne tutti dalla ferrea morale lo incensavano apertamente».

Tutti e quattro i film furono prodotti dalla American Film Company e dalla Thanhouser Company, che fecero soldi a palate. Le due aziende si assicurarono che Audrey potesse girare gli Stati Uniti in treno – una vera stravaganza per l’epoca – per promuovere i suoi film. Nel 1916, durante il tour, venne arrestata per «indecenza sul palcoscenico» a St. Louis. All’epoca comunque Audrey si considerava ormai un’attrice, e si trasferì a Santa Monica.

Se avesse saputo o meno recitare sul serio non lo sapremo mai. Sappiamo solo che i produttori ingaggiarono una sua controfigura, Jane Thomas, per sostituirla nelle scene in cui era richiesto un livello minimo di recitazione, mentre Audrey continuò soltanto a posare nuda. Tuttavia faceva la modella già da diversi anni, e quella carriera era destinata a concludersi da un momento all’altro. Recitare era una delle poche alternative che aveva, sempre che avesse mostrato di avere talento.

Era la più famosa modella d’arte d’America, e con caparbietà cominciò a farsi un nome anche come performer. Audrey, con il suo atteggiamento aperto e laissez-faire nei confronti della nudità, divenne oggetto di controversie, e ai suoi spettacoli partecipava spesso un pubblico eterogeneo diviso tra ammiratori e severi moralisti. Tutto cambiò il 27 febbraio 1919. Un noto medico newyorchese, il dottor William K. Wilkins, e sua moglie Julia, erano di ritorno da una vacanza nella loro residenza estiva di Long Island. Ad attenderli c’erano dei ladri, che fracassarono la testa della donna con diciassette martellate. La poveretta fu trovata morta nel vialetto. L’omicidio Wilkins cominciò a occupare con prepotenza le prime pagine dei giornali quando divenne chiaro che i fantomatici «rapinatori» non erano i sospettati principali: l’indagato numero uno era nientemeno che il dottor Wilkins in persona. Quando fu spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti, il medico si fece uccel di bosco.

Il legame di Audrey con l’omicidio era più che labile, ed era necessario un notevole sforzo di immaginazione per collegarla all’evento basandosi soltanto sul fatto che lei e sua madre erano inquiline di un edificio di proprietà di Wilkins a New York. La polizia annunciò sui giornali (tra cui il New York Times e i rotocalchi locali) che la stavano cercando per farle delle domande. Audrey però era fuori città, si stava esibendo in Canada. La frenesia dei media era già al picco massimo, e i giornalisti cominciarono a inventare di sana pianta degli articoli sull’omicidio Wilkins, insinuando che la chiave di tutto fosse «la donna più perfetta d’America».

Mentre aspettavano di averla tra le grinfie, il 18 maggio 1919 quelli del Sunday Morning Star tratteggiarono un quadro molto vivido dell’accaduto: «Il pappagallino nella sua gabbia ha visto tutto. L’hanno visto anche la scimmia e i cani. Ma pappagallini, scimmie e cani non possono testimoniare in tribunale». Dov’è Audrey?, si domandavano. Perché non testimonia? «È un mistero il perché miss Audrey Munson e sua madre abbiano lasciato la casa di Wilkins, al 164 di West 65th Street, appena pochi giorni prima dell’omicidio… Lei si rifiuta di parlare». Il giornale andava avanti chiedendosi: «La splendida Audrey Munson, attrice nota per avere le forme più perfette del mondo, che cosa sa del misterioso omicidio della signora Wilkins in quella graziosa casetta sul mare?»

La bella del mondo dell’arte, attrice alla ribalta, all’improvviso divenne una latitante ricercata, la femme fatale di un brutale omicidio passionale. Le autorità avviarono una caccia «alla donna» su scala nazionale. Audrey era stata avvistata per l’ultima volta su un palcoscenico di Toronto. Correva voce che «l’agenzia Burns» avesse «individuato miss Munson in Canada», ma che non fosse «riuscita a consegnarle un mandato di comparizione né a convincerla a testimoniare in tribunale».

I rotocalchi godevano di un ampio margine per le speculazioni e si gettarono su quella storia come cani su un osso. Nelle loro mani Audrey, quasi sempre ritratta nuda, divenne una Gezabele, una tentatrice che aveva sedotto l’anziano padrone di casa cui non era rimasta altra scelta che uccidere la moglie per sposare lei. Le compagnie cinematografiche sfruttavano lo scandalo per promuovere il suo nuovo film: «Dov’è Audrey? Trovate la ragazza che tutti cercano in Girl o’ Dreams!» recitavano le inserzioni pubblicitarie.

Nel giro di un mese la reputazione di Audrey era ormai ridotta a brandelli. Lei e sua madre alla fine dissero alla polizia di aver lasciato l’appartamento diversi giorni prima dell’incidente, dopo che il medico aveva infastidito la ragazza con il commento: «Non sposarti mai. Se lo farai, perderai la tua figura simmetrica». Il dottor Wilkins fu condannato alla sedia elettrica, ma prima che la sentenza fosse eseguita si suicidò nella sua cella, nell’estate del 1919.

Come aveva fatto la brillante carriera di Audrey a finire nel fango nel giro di un mese? Fu solo per via dello scandalo legato al caso Wilkins? Oppure qualcos’altro la condusse al fallimento? In una stucchevole storia comparsa su Movie Weekly nel luglio 1922, intitolata «La meravigliosa tragedia della vita di Audrey Munson», Audrey attribuisce la sua caduta a un incidente avvenuto all’incirca nel periodo dell’omicidio. All’epoca lavorava in una produzione di varietà chiamata The Fashion Show, e dovette respingere le avances di una personalità di spicco del mondo del teatro. Entro breve lo spettacolo fu cancellato senza fornire alcuna spiegazione. Audrey descrive l’aggressione senza mezzi termini:

Mi mise un braccio intorno alla vita premendomi le labbra sulla spalla. Lottai per liberarmi. Lo colpii. «Stai lontano da me!» gridai. «Non toccarmi. Ti odio. Mi dai i brividi. Preferirei che un serpente mi strisciasse addosso piuttosto che sentirmi le tue mani sulla pelle». […] «Ti ricorderai di queste parole» mi disse, e se ne andò. Qualche giorno più tardi mi fu comunicato che The Fashion Show era annullato. Non ricevetti alcuna spiegazione.

Qualsiasi fosse il motivo, ormai era troppo tardi perché Audrey potesse tornare in scena. Il suo contratto con la American Film Company era scaduto. Lavorava come modella sempre più sporadicamente: era tempo di guerra e molti artisti americani erano a combattere in Francia. Quelli rimasti erano passati al nuovo stile del modernismo astratto, influenzati dal cubismo e dal fauvismo, e avevano preso le distanze dalla scultura realistica. E poi il mondo ormai conosceva il suo corpo, il suo repertorio di pose. Audrey aveva tentato ogni strada possibile per continuare a lavorare e guadagnare, ma il mondo era andato avanti senza di lei. Inoltre, stava invecchiando.

La sua carriera cinematografica non decollò mai davvero. La fama di «donna dalle forme più perfette del mondo» le era rimasta appiccicata addosso, e ora cominciava a ritorcersi contro di lei. In un’intervista rilasciata al Daily Variety nel 1920, Audrey dichiarò che era stato il caso Wilkins a rovinarle la carriera. In seguito aveva tentato di risollevarsi, proponendosi ai vari studios con «vane speranze», disse. «Dopo aver cercato qualcosa da fare a Toronto, New York, Kansas City, Chicago e Detroit, sono tornata a casa. A Syracuse ci sono cresciuta e almeno qui speravo di potermi liberare di quell’orribile fardello di sospetti… il pubblico ormai sembra odiarmi. E nessuno mi toglie dalla testa che questo sentimento sia incoraggiato nei quartieri alti».

Audrey non possedeva risparmi. I trentacinque dollari la settimana che aveva guadagnato con il lavoro di modella e i duemilacinquecento di cachet per i film non durarono a lungo. Le sue pellicole avevano fruttato milioni alle compagnie di produzione e Audrey fece causa agli studios per non averle pagato il salario, ma perse. Senza denaro e senza più alternative, lei e sua madre fecero ritorno nella minuscola cittadina di Mexico, New York occidentale, dove andarono a vivere in un monolocale. Mentre Katherine vendeva porta a porta utensili da cucina per racimolare un po’ di denaro, Audrey aveva difficoltà a trovare un impiego.

Fu lì che la sua vita prese una piega ancora più bizzarra. Per rivitalizzare la carriera, infatti, cominciò a scrivere – forse si avvaleva di un ghostwriter, sebbene sembri proprio la stessa Audrey delle tante interviste – una serie di editoriali sul New York American, in cui raccontava aneddoti salaci su ciò che accadeva realmente dietro le quinte degli studi artistici.

La voce di quei pezzi era la cosa più sorprendente: cruda e personale, riferiva fatti che fungevano da spunto di riflessione sulla più generale tragedia americana del fare arte in un mondo ostile. Quegli articoli diedero ad Audrey la possibilità di ripulire il proprio nome e la propria reputazione: ne usciva come una modella coscienziosa e stacanovista, consapevole delle tentazioni del suo campo, ma ostinata a perseguire virtù e castità: un modello di vita per le giovani donne come lei.

Fu una vera e propria operazione di rebranding – probabilmente la prima della storia – che resta interessante ancora oggi. Ai giorni nostri Tyra Banks racconta i «retroscena» del mestiere della modella in ogni episodio di America’s Next Top Model, e nel 1921 Audrey faceva lo stesso nel suo editoriale a diffusione nazionale. Condivideva i suoi segreti di bellezza. Raccontava al mondo quanto impegno le avesse richiesto diventare una modella famosa, la fatica di restare immobile anche quando le versavano addosso acqua gelata, lo studio dei grandi artisti, i tanti esercizi.

Inoltre quegli editoriali erano curiosi, ricchi di vivide allusioni alle tentazioni rappresentate dal denaro e dal sesso. Uno in particolare riguardava un’amica di nome Elsie, che Audrey aveva aiutato a trovare un impiego come modella d’arte. La ragazza cominciò a trattenersi in studio sempre più fino a tarda sera, e alla fine cedette alla tentazione rappresentata dalla «bohemia», sottocultura di artisti e modelle dilettanti che «posano perché lo ritengono un lavoro facile e di conseguenza indulgono in altrettanto facili passatempi». Partecipando a quei festini, Elsie iniziò a suscitare diffidenza nei veri artisti, i quali si chiedevano: «Come può una donna essere una baccante di notte e un angelo alle dieci la mattina?». La risposta di Audrey era semplice: «Non può».

Audrey rilasciò anche alcune interviste in cui annunciava il suo ritorno imminente sulle scene. In un articolo comparso sul St. Petersburg Independent nel gennaio del 1921 si leggeva: «Audrey Munson ha conosciuto la povertà e i disagi, ma sta tornando». Si raccontava di come, senza un penny, fosse tornata insieme alla madre nella sua casa d’infanzia a Syracuse: «Con la madre si è recata dai vari commercianti di Syracuse implorandoli di assumerla come impiegata; nei ristoranti, a cercare lavoro come cameriera… Nessuno la voleva». Si raccontava che Audrey e sua madre vivevano in un’unica stanza ammobiliata, «cucinando il loro magro pasto su un piccolo fornello a gas collegato a un ugello». Tuttavia tempi più felici la attendevano: all’orizzonte c’era l’opportunità di girare un nuovo film, grazie a un amico influente che aveva interceduto per lei con un’azienda cinematografica. «Ho solo ventisette anni – pensate un po’! – e ho tempo di costruirmi una nuova carriera. Avremo successo, non è così, madre?» chiedeva Audrey nel suo editoriale. La madre, descritta come sua unica vera amica in tempi di difficoltà, rispondeva: «Di sicuro ci proveremo!». Tuttavia nell’articolo Audrey si chiedeva se l’opinione pubblica le avrebbe permesso di ripartire. In quelle parole è difficile non intravedere l’ombra di future stelle cadute e ragazze immagine.

Nel giugno 1921, a New York, fu proiettata la prima del quarto e ultimo film di Audrey, Heedless Moths – «un grande, semplice fotodramma… con colpo di scena», diceva il poster. Era l’opportunità per Audrey di cambiare l’opinione che la gente aveva di lei. Da quella pellicola, filmata prima che lo scandalo Wilkins le rovinasse la carriera, dipendeva il suo futuro – bisognava vedere come avrebbe reagito il pubblico a quello che veniva pubblicizzato come il suo primo «grande» ruolo da protagonista. Il film narrava di una modella che fungeva da musa per un artista e allo stesso tempo ne salvava il matrimonio grazie ai suoi valori morali. Lo scenario richiamava molto la vera vita di Audrey, se non altro per come l’aveva raccontata nel suo editoriale.

Il film fu promosso come «la storia sconosciuta della donna che ha ispirato i capolavori di molte collezioni, pubbliche e private, un resoconto delle eccentricità e dei metodi degli artisti, e delle tragedie che affliggono le giovani modelle prive dell’equilibrio morale necessario a salvaguardarsi dai pericoli dell’atmosfera intima degli studi d’arte». Fu anche il film nel quale la controfigura di Audrey, June Thomas, incaricata della «recitazione», fu impiegata maggiormente.

Audrey aveva ancora un vero talento per gli scandali. Un articolo del New York Times, datato giugno 1921 e intitolato «“Descending Night” lascia il Village a bocca aperta», riferiva: «L’attacco alla moralità del Greenwich Village ha assunto ieri sera le sembianze da favola di Audrey Munson così come viene rappresentata in una riproduzione cartacea della statua per la quale ha posato. Descending Night non ha niente dell’intrigante e ombrosa vaghezza che caratterizza l’altrettanto famoso Nudo che scende dalle scale. Non c’è niente di cubista o futurista, in quel poster». Il recensore del medesimo giornale definisce Heedless Moths «noiosissimo e incredibilmente macchinoso», sospirando sconsolato all’idea che fosse nata come una «favola morale» (ammette tuttavia che la trama aveva in sé un po’ di intrigo). In Heedless Moths, più che in tutti gli altri film, la differenza tra Audrey e Jane Thomas era eclatante, e dopo l’uscita di quella pellicola la carriera cinematografica di Audrey si concluse. Non era stato il genere di ritorno sulle scene in cui aveva tanto sperato.

Che fare, pertanto? Audrey aveva un’ultima possibilità di trovare ciò che desiderava come artista: successo, fama, attenzioni, amore. Mise un annuncio sul giornale locale in cui affermava di cercare marito. Si sarebbe sposata, scriveva, se fosse riuscita a trovare un uomo «fisicamente bello» come lei. All’annuncio risposero centinaia di persone e, dopo un anno, Audrey annunciò il fidanzamento con un ricco e affascinante pretendente, un pilota di caccia di cui nessuno aveva mai sentito parlare, un certo Joseph J. Stevenson di Ann Arbor, Michigan. Nonostante il clamore che ne derivò, Audrey continuò a vivere di quasi niente a Mexico, New York, con sua madre che faceva la governante.

La storia d’amore si concluse in circostanze misteriose. Il 27 maggio 1922 i giornali riportarono la notizia che Audrey aveva ricevuto un telegramma da Ann Arbor e subito dopo aveva tentato il suicidio bevendo cloruro mercurico. In una versione diffusa dalla stampa si ipotizzava che con quel telegramma il pretendente di Audrey, l’uomo misterioso del Midwest, avesse annullato il matrimonio. Il primo articolo apparso sul New York Times si intitolava «Audrey Munson beve una dose di veleno», e l’occhiello gridava: «Audrey Munson è fuori pericolo; pentita, vuole vivere ancora». Il Times pubblicò poi un addendum in cui diceva di aver cercato Stevenson ad Ann Arbor e di non essere riuscito a rintracciarlo: «A quanto ne sappiamo, in quella città non è mai vissuto nessun uomo rispondente a quel nome».

A trent’anni Audrey era conosciuta in tutta Mexico come «la donna che si spogliava per denaro». Le madri chiudevano le imposte quando la vedevano spuntare in fondo alla via. Dopo le innumerevoli dichiarazioni sulla speranza di un suo ritorno e sulle sofferenze della povertà, i media persero definitivamente interesse per i suoi calvari. Da quel momento Audrey condusse una vita tranquilla con la madre e i sei cani. Si trasferirono di casa in casa, trascorrendo anche del tempo in una fattoria dove Katherine lavorava come governante. Audrey era sempre stata una ragazza irrequieta, ma in quel periodo cadde in depressione e, a quanto pare, cominciò a sviluppare una dipendenza da certi medicinali. Il suo comportamento si fece sempre più imprevedibile: la si vedeva spesso pattinare o falciare il prato; come riferisce Andrea Geyer in Queen of the Artists’ Studios, gli abitanti del posto dicevano che andava in giro con una coloratissima sciarpa intorno alla testa.

Nel 1931 la vita di Audrey subì un’altra svolta drammatica. Un articolo di giornale la indicò come possibile responsabile di una serie di incendi scoppiati in alcuni granai e riferì che dovette sottoporsi al verdetto del tribunale locale. Altri dissero che era diventata ingestibile – affetta com’era dalla depressione – e che fosse stata sua madre a trascinarla in tribunale. Audrey fu condannata al ricovero nel St. Lawrence State Hospital di Ogdensburg, New York, prima di compiere quarant’anni.

All’epoca le strutture per i malati di mente non erano riservate a chi veniva dichiarato clinicamente pazzi. Fornivano anche sostegno a quelle famiglie che non avevano i mezzi per occuparsi di un parente instabile. L’internamento di Audrey fu forse dovuto ai reali problemi di squilibrio mentale, oppure al fatto che la fedelissima madre oramai stava invecchiando e non poteva più prendersi cura di lei. Ad ogni modo Audrey trascorse a Ogdensburg il resto dei suoi giorni.

Molti artisti che raggiungono il successo di cui Audrey godette prima di compiere i vent’anni non vivono tanto a lungo da sperimentare sulla propria pelle la sua stessa, rovinosa caduta. Il suo errore fu forse quello di ostinarsi a inseguire la fortuna anche quando era evidente che fosse salpata per altri lidi, ostinazione che le fece perdere tutto, compresa la stima di un mondo che l’aveva portata alle stelle. La musa sopravvisse alla donna. Essere amata per il suo corpo, la sua grazia e bellezza, e in breve tempo diventare una reietta, «la donna che si spogliava per denaro», doveva averle causato enormi sofferenze – del genere forse che trovano sollievo solo in un istituto di igiene mentale.

La sua nuova casa era una vera e propria comunità, che si estendeva per oltre mille acri a Point Airy e somigliava, come notò Andrea Ray nella sua descrizione dell’edificio, ai grandi campi degli Adirondack dell’epoca e delle società utopiche il cui movimento affondava le radici proprio nella zona ovest dello stato di New York. L’istituto comprendeva una serie di edifici, tra cui una fattoria, un cinema, un salone di bellezza e una pista da bowling. I pazienti erano incoraggiati a coltivare hobby come l’agricoltura, il ricamo o il cucito, e potevano partecipare a balli, ricevimenti e andare al cinema. Quasi tutti, come Audrey, erano stati ricoverati contro la propria volontà.

Oggi i suoi resti giacciono in una tomba senza nome, e Audrey verrà principalmente ricordata come la prima donna della storia ad essere apparsa nuda in un film, ma nonostante l’ignominia che avvolge la sua morte, di lei ci resta l’eredità senza tempo delle innumerevoli opere d’arte ispirate al suo viso e al suo corpo immortali. «Sono sbigottita dagli scherzi del destino, che plasma la vita dopo la morte delle modelle d’arte più famose del mondo» scrisse Audrey nel suo articolo «La Regina degli Artists’ Studios». Forse aveva già intuito quale sarebbe stato il suo destino. Forse la maledizione della zingara non le aveva detto nulla di nuovo, ossia che «la bellezza di una donna è pericolosa sin dai tempi della prima pronipote di Eva» e che sono rare le modelle in grado di sfuggire a quello stile di vita con l’anima ancora intonsa.

Oggi, camminando per le strade di New York, siamo circondati dal suo spettro. Eccola che ci guarda dal Manhattan Bridge sotto forma di polena di una nave, o che fiancheggia l’ingresso del Brooklyn Museum of Art, in una costellazione di statue al Metropolitan Museum of Art; ci è familiare quel volto, con quegli zigomi e quelle fossette, che vediamo sulle facciate delle costruzioni e sulle statue di Central Park. I suoi piedi dall’arco perfetto ancorano una statua nel Saratoga Spa State Park. Ci scruta dai fregi del Frick Building e dalla biblioteca sulla 42nd Street. Scendendo lungo Riverside Drive si superano statue che portano il suo volto e il suo corpo, un poderoso omaggio agli eroi della città reso possibile dalla pazienza della modella, una sfinge. D’altra parte, il fiore all’occhiello della carriera di Audrey resta Civic Fame di Adolph Weinman, visibile in cima al Manhattan Municipal Building, ma si fatica a rammentare che a ispirarla fu una ragazzina adolescente, una giovane donna che offrì il proprio corpo in cambio dell’immortalità e per questo pagò un caro prezzo.

 

L’autrice ringrazia Diane Rozas e Anita Bourne Fottehrer, per averle fornito preziose informazioni con le loro opere, e Andrea Geyer per la sopracitata Queen of the Artists’ Studio: The Story of Audrey Munson.


  1. L’attuale collocazione della scultura è ignota.

*

Elisabeth Donnelly è editor e scrittrice. Vive a Brooklyn.


Titolo originale: Descending Night, © Elisabeth Donnelly, 2015, all rights reserved

Foto © Mariateresa Pazienza