Questo pezzo è apparso originariamente su Brick numero 90, inverno 2013
In quest’epoca di materialismo e avidità, mi sono ritrovata a pensare a cosa significhi aggrapparsi alle cose, e cosa significhi perderle. Ho pensato a certe scatole piene di carta che conservo nel portico dietro casa – prime stesure, i pochi diari tenuti negli anni. Vorrei caricare tutto in macchina, guidare fino in campagna, scovare una strada sterrata e addentrarmi nel bosco, trascinare fuori la roba, cospargerla di liquido infiammabile e bruciarla. Per come me la sono immaginata, il fumo sarebbe grigio scuro. Me ne starei lì a guardare quel groviglio di arrovellamenti mentali salire al cielo, e mi sentirei liberata – credo. In questo scenario, c’è sempre un esemplare di cardinale rosso che spunta su dall’erba scura vicino ai miei piedi, per poi volare via e sparire nell’angolo in alto a sinistra. Ma cosa significa far sparire qualcosa?
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Di recente, il mio PAP test aveva evidenziato delle anomalie. C’era stata una biopsia e ora avevo appuntamento per raschiare la cervice con una cannula elettrificata, procedura che in gergo medico si chiama LEEP. Era stato mio marito a portarmi in macchina alla clinica, dopo che avevamo accompagnato nostro figlio alla scuola materna. Lui leggeva il New Yorker mentre io mangiavo un bagel tostato e dentro mi montava l’agitazione.
Non un rumore in sala d’attesa, e poi all’improvviso qualcuno aveva chiamato il mio nome. C’era stato il classico momento di voraginosa solitudine, mentre aspettavo la dottoressa seduta sul bordo del lettino, nuda dalla vita in giù con un rigido fazzoletto di carta a coprirmi il grembo. Lei era entrata in sala operatoria con aria amichevole e rassicurante, e io ero scivolata in basso infilando i piedi nelle staffe di metallo avvolte in due guanti da forno. Il simbolismo intrinseco, mi chiedevo, era forse ironico, dolce – o deprimente? Lo speculum gelido e argentato, così simile a un cric, mi spalancò la vagina, e la cervice, come un ciclope (solitamente tenuto sotto chiave, nascosto alla vista perché, diciamocelo, può essere imprevedibile), sentì l’occhio stupito e solitario farsi asciutto nella luce intensa che penetrava l’aria stantia.
L’assistente della dottoressa tolse il rivestimento a un grosso elettrodo adesivo per poi attaccarmelo alla coscia – sembrava una di quelle strisce antitaccheggio che a volte si trovano fra le pagine di un libro. Serviva a rendermi neutra, così né io né la dottoressa avremmo preso la scossa. Poi ci fu l’insensibilità localizzata data dall’iniezione. Una percezione sottocutanea profonda, come se qualcuno stesse armeggiando con il mio cervello, l’altro cervello, quello che ho fra le gambe, punzecchiando un tessuto sprovvisto di nervi ma comunque ipersensibile; invadente ma difficile da localizzare, un morbido cotton fioc gommato spinto su nella testa passando dal naso. Mi ricordò il parto. L’anestetico è mescolato a una sostanza chimica che ne velocizza il tempo di assorbimento. Può far venire la tachicardia, mi aveva detto la dottoressa. Può, avevo pensato, all’improvviso senza respiro, disorientata. Correvo nuda in mezzo all’umidità straniante di una foresta prima dell’alba, con l’aria fredda e i rami bagnati che mi schiaffeggiavano la faccia e gli arti.
Poi l’abrasione con il cavo elettrificato – è l’elettricità a rendere il cavo una lama. Invocai i miei animali guida. Entrai in uno stato di trance. Iniziai a parlare in una lingua che non riconoscevo. L’assistente interrogò la dottoressa. Lei rispose, cortese, Sta pregando. Apprezzavo il rispetto con cui mi trattava considerato che, con tutta probabilità, mi stavo comportando in maniera un po’ strana. La carne fu separata da altra carne. Io da me stessa. Altro dolore indistinto, cauterizzante. Poi un filo di fumo pallido, come la fugace apparizione di un fantasma. La dottoressa aveva dimenticato di accendere l’aspiratore e il tubo di plastica bianca giaceva sul mio interno coscia impossibilitato a fare il suo lavoro discreto. Nell’aria aleggiava il tanfo acre, di gomma bruciata, del mio stesso corpo in fiamme. Udii una specie di canto. Un tintinnio di cimbalini a dita. Ero sulle rive del Gange, con l’odore della mia stessa cremazione nelle narici.
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Ogni mese le donne entrano in contatto con il sangue – sangue su cotone, sangue misto a feci, sangue nel water. Anche ora che sto scrivendo, sanguino. Il mio sangue è rosso acceso e caldo. Mi striscia via tra le gambe per dimostrare quanto sia potente e creativa la forza della riproduzione. A giugno del 2012, la parlamentare Lisa Brown è stata estromessa a vita dai dibattiti al Congresso per aver usato il termine vagina nel contestare la proposta di legge antiabortista dello Stato del Michigan. Una legge per rendere illegali tutti gli aborti dopo la ventesima settimana di gestazione, indipendentemente dalla salute della madre o del feto, o dal motivo della gravidanza, anche in caso di stupro o incesto. Un’immagine di Brown sul podio durante il suo intervento mostra, alle sue spalle, un mare di attempati uomini bianchi in completo, le teste recise dal corpo dal cappio serrato delle cravatte.
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La vagina manda fuori di testa gli uomini – a volte in maniera positiva, a volte decisamente no. La vagina è un mistero spaventoso, selvaggio, indomabile, immorale. Un qualcosa di primitivo in cui perdersi, come il calderone che ribolle al centro di un cerimoniale cannibalistico. La vagina ha una volontà propria. A quanto ne so, nella vita ho fatto impazzire davvero soltanto un uomo con il potere inconsapevole e il tempismo degli atti spontanei della mia.
Avevo sedici anni e mi trovavo con una decina di altri passeggeri provenienti da Montreal a bordo di un vecchio scuolabus diretto a un festival hippie in una zona isolata sulle sponde di un enorme, torbido lago del Texas. Era il 1988, indossavamo abiti di seconda mano e gioielli messi insieme con fili colorati e pietre semipreziose, argento, legno e ossi. Avevamo i capelli sporchi e la pelle bruna di polvere e terra; la natura si stava pian piano reimpossessando di noi. Ci si può sdraiare ovunque, e la terra farà da coperta. Il confine circostante poco a poco si sbriciolerà. Arrivammo all’alba, l’aria era umida e c’era ancora una traccia di fresco nella calura, un cielo rosa; la superficie lattiginosa dell’acqua era del colore del tè.
Fu lì che per la prima volta vidi Lance, alcune sere dopo, quando vagando tra un falò e l’altro mi avvicinai alle sagome dell’ennesimo gruppo di persone: le chiacchiere, la musica, i dialoghi senza senso. È in ritiro in Colorado, per entrare in contatto con il suo animale guida. Io ero giovane e ammaliata dalla novità, dall’avventura, da quella libertà inebriante. A parte una lunga gonna di cotone indiano, ero nuda. L’aria vibrava di richiami di insetti e del circolo di risate nel buio. Il cielo era trafitto di stelle.
Lance era sceso da un pulmino non diverso dal nostro, parcheggiato vicino a un falò scoppiettante. Ce n’erano molti, di pulmini così. Alcuni erano a due piani, altri avevano addirittura dei terrazzini, dei corrimano in metallo cui erano appesi dei vasi di petunie. Lance mi apparve come Mercurio venuto a darmi un messaggio. Mi sarei aspettata di vedere delle ali attaccate ai talloni dei suoi stivali militari, ormai lisi. Indossava i pantaloni ampi di una tuta bordeaux con l’orlo rigirato in vita, talmente basso da rivelare la griglia dei muscoli addominali e le ossa del bacino, come frecce rivolte verso il pube. La pelle, alla luce del fuoco, era di un rosso dorato. Il petto piatto e glabro. Ero grata a quel pulmino per aver dato alla luce una creatura così perfetta.
Con la schiena dritta e le braccia incrociate, fissava le fiamme. Aveva le gambe divaricate e i piedi piantati a terra. Una chioma di capelli neri come quelli di un’icona egizia. Riuscivo a malapena a staccargli gli occhi di dosso, ma ero troppo in soggezione per rivolgergli la parola. Danzavo ed ero sballata, così continuavo a danzare. Tre donne suonavano il bongo, e c’era una specie di estasi primitiva in quell’agitarsi di corpi seminudi, con le fiamme rossastre negli occhi. Dopo un po’ lui si allontanò dal fuoco svanendo nell’oscurità. Non lo rividi più, non in Texas.
Un paio di mesi dopo mi trovavo a Santa Cruz, a chiedere l’elemosina in una delle vie principali. Lo vidi camminare verso di me e mi paralizzai. Lui vide che lo guardavo e si fermò a parlare. Era anche lui alla deriva, ben vestito con un paio di pantaloni beige ma senza fissa dimora. Ti andrebbe, mi chiese, di andare in spiaggia?
Ci sedemmo sulla sabbia calda a raccontarci come eravamo arrivati a quel punto, e mentre ancora parlavo mi mise una mano sulla nuca, mi tirò a sé e mi diede un bacio. Baciava come una stella del cinema, dapprima lentamente, con lunghi sospiri e appena un filo di lingua, aspettando che la mia bocca si schiudesse per aprire la sua e agganciarvisi. Ci assaggiammo allo stesso modo in cui si prende a morsi una mela. Ci rotolammo nella sabbia e poi mi rincorse sulla battigia, eravamo Burt Lancaster e Deborah Kerr. Risalimmo verso la città dove trovammo un parco e un tavolino.
Vorrei leggerti i tarocchi, mi disse. Posso?
Forse, risposi. Un giorno.
Mi tirai su la gonna salendogli in grembo e ci baciammo per ore. Avevo un solo paio di collant ed era la settimana del ciclo. Non potendo permettermi gli assorbenti, usavo un mucchietto di carta igienica. Quando ci rialzammo, notai una piccola macchia di sangue sulla zip dei suoi pantaloni, ma mi vergognavo di dirglielo.
Era settembre e a Santa Cruz può far freddo la notte. Stavo in un motel con altri giovani senzatetto. In due affittavano la stanza e poi al calar del buio diventavamo anche quindici. Ci portai Lance. Ci sdraiammo sul pavimento, tra il letto e il muro, per avere un po’ di privacy. Lui si girò su un fianco per guardarmi. Si udì il solito, Buonanotte, ciurma, e poi le luci si spensero. Lance mi infilò una mano sotto la maglietta fermandosi su un seno. Sentii il bacino rilassarsi, sollevarsi. Quando Lance iniziò a baciarmi fra le gambe gli dissi, Ho il ciclo.
Che il Signore sia lodato, sussurrò risalendo.
Essendo cresciuta in una famiglia credente, mi parve la cosa più sexy del mondo. Conciliava le pulsioni giovanili con il sesso, rendendo quasi normale il contesto della mia formazione. Non mi capacitavo che ci si potesse rivolgere a Dio in quella stanza, in quel motel, invocarlo con venerazione in riferimento al mio corpo. Avevo solo sedici anni, ma Lance mi faceva sentire raffinata. Non so nemmeno quanti anni avesse. Ventidue, azzarderei. Quella notte non scopammo, ma la mattina avevo le labbra gonfie e una chiazza rossa sul mento.
Il giorno seguente lo passammo insieme. Ci aggirammo nella parte malfamata della città, sulla passerella lungo la spiaggia e nel luna park deserto al buio. Ci tenevamo per mano. Con lui mi sentivo al sicuro, aveva un’aria intrepida. Pensavo che non ci fosse nulla in grado di scuoterlo.
Quella notte decidemmo di dormire all’aperto. C’era una discarica non distante dalla strada principale, ci intrufolammo dai cancelli chiusi. Trovammo un’area isolata in mezzo ai gusci vuoti delle auto, stendemmo dei cartoni sulla ghiaia. Con una coperta in due, ci addormentammo sotto le stelle in un abbraccio quasi fraterno, come orfani in fuga.
Mi svegliai prima di lui. Il sole si rifletteva sui vetri infranti e sull’acciaio cromato. Un ricamo di rugiada copriva ogni cosa e il fumo si alzava dai punti evaporati al sole. Sentivo il sedere appiccicoso. Abbassai lo sguardo e mi vidi le gambe rosse, il cartone al di sotto macchiato. Ero seduta in una pozza del mio stesso sangue. Mi avevano sparato? Ero morta? E se non era così, allora chi o che cosa era stato sacrificato affinché potessi rimanere in vita? Il sangue è protezione, secondo la Pasqua ebraica fu ciò che salvò il primogenito di ogni famiglia. Ma è anche un tabù. Tremavo. Dovevo ripulire, ma ero troppo angosciata per svegliare Lance.
Cercai di sfilargli il cartone di sotto, e riuscii a liberare una delle scatole e a gettarla dietro un cumulo di pneumatici, ma attorno a Lance c’era ancora una macchia scarlatta. Ora era lui a sembrare la vittima di un crimine. Non riuscii a sostenere l’impatto emotivo di quell’immagine, così me ne andai. Speravo che non si sarebbe agitato troppo al risveglio. All’alba corsi lungo le vie deserte di Santa Cruz fino al motel e bussai alla porta della stanza. Un’amica mi fece entrare. Avevo le mani sporche di sangue. Alzai le spalle come gesto di scuse e lei disse, Cazzo, e mi lasciò fare una doccia e lavare i vestiti. Solo quando due settimane dopo avevo ancora il ciclo un’altra amica mi disse di stare alla larga dal tè allo zenzero. Ha proprietà abortive, disse. Non lo sapevi?
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La volta successiva che vidi Lance – e l’ultima – fu a un concerto dei Grateful Dead a Berkeley, circa sei settimane dopo. Un’amica mi disse, C’è il tuo ex laggiù.
Chi?, chiesi.
Lance, rispose.
Era nel parcheggio. Pensavo di averlo visto venire verso di me, ma non ero sicura che fosse lui. Aveva i vestiti stropicciati e la pelle sporca. Era Lance, certo, ma non era lui. Aveva gli occhi velati, irrequieti, grumi di saliva ai lati della bocca.
Lance, gli dissi, sono io. Ma non sembrò riconoscermi, e fu terribile e triste. Non disse nulla, continuò solo a guardarsi intorno nel parcheggio, nervosamente, armeggiando con la cucitura dei pantaloni. Erano gli stessi che aveva indosso settimane prima, a Santa Cruz. La macchia del mio sangue era ancora lì, sulla zip? Lo avevo marchiato, in un certo senso, una Pasqua ebraica al contrario? Un marchio di pazzia che diceva agli angeli: Questo potete prenderlo.
Lance, ripetei, e lui si voltò per trafiggermi con lo sguardo. Era un’accusa, o forse un grido d’aiuto, ma io non sapevo come fare. Ebbe un fremito, come lo spasmo di chi cerca di scrollarsi qualcosa di dosso, e si allontanò. Era una creatura bellissima e forte, ma ormai qualcosa si era spezzato. Anche a distanza di anni, non riuscii a scacciare il pensiero che fosse stato il mio sangue a spingerlo verso il baratro. Lo shock di essersi svegliato in una macchia scarlatta, la ragazza di fianco a cui si era addormentato ormai scomparsa.
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Anni dopo tornai a vivere dai miei. Mia madre aveva un’attività di consulenza cristiana, praticava esorcismi dal terzo piano della nostra grande casa a Toronto. Alla fine della giornata lavorativa scendeva e in poche parole raccontava a me e mio padre com’era andata. I giovedì erano i giorni più lunghi – un cliente dopo l’altro dalle nove di mattina alle sei del pomeriggio. Quel giovedì, in particolare, scese raccontando di come la sua giornata fosse iniziata con un battibecco di quarantacinque minuti con un demone di cui non riusciva a sbarazzarsi – non poteva dirci molto di più per via del segreto professionale – e finita dovendo impedire a un’altra cliente di fare del male a se stessa, a lei, alle pareti, a tutto quanto.
Questa donna, spiegò mia madre, quando è posseduta batte la testa contro qualsiasi superficie: il pavimento, i mobili. Disse che l’aveva tenuta ferma tra le sue gambe per mezz’ora. Non avrei dovuto mettere questa gonna, disse. Guardatela.
Mio padre rispose, Quel che ti serve è un collega, un uomo grande e grosso.
Lei disse, Sali tu a bordo?
Come no, rispose lui. Ti tengo la croce.
Per cena la mamma voleva qualcosa di caldo, pasta al formaggio. Bevve tre bicchieri di vino rosso. Non voleva mollare la teglia a mio padre per lavarla. Voglio piluccare ancora, disse. Potrei mangiare fino a domattina. Ok, portatemela via. Non ne avrei bisogno, in effetti. Oh, ma è giovedì, vero? Di giovedì non ho autocontrollo.
Era quasi Natale, così dopo cena mi offrii di preparare l’eggnog e i miei si ritirarono in salotto, seduti vicino all’albero. Quando entrai col vassoio mio padre stava leggendo sul divano vicino alla finestra, lei invece era sdraiata su quello di fronte, supina, con le gambe a cavallo del bracciolo e i piedi sospesi sopra il pavimento. Mi sedetti vicino a mio padre e lei prese a ridere – della propria impotenza, pensai. Poi però la risata crebbe, divenne sempre più forte, quasi isterica. Forse avvertiva la presenza di Dio, forse lo Spirito Santo l’aveva scossa. Ogni volta che rideva i piedi le saltavano in aria. Iniziai a innervosirmi, guardai mio padre. Sta bene?
No, rispose lui con tono calmo, senza alzarsi.
Mia madre, tra una risata e l’altra, continuava a ripetere la parola cacca. Oh, cacca. Rideva un po’ meno, iniziava a piagnucolare. Cacca. E poi si zittì. Sto annegando, disse piano, seria.
Mi spaventò. Era forse posseduta?
Le lacrime mi riempiono le orecchie, disse. Presto sarò sorda.
Guardai mio padre.
Ti salviamo noi, tesoro, le disse.
Oh, è proprio giovedì, ribadì lei. Non vi pare?
Tutto si fece immobile. Le macchine fuori passavano emettendo un sibilo. Sentivo l’orologio ticchettare in sala da pranzo. Io e mio padre rimanemmo seduti, pazientemente. La mamma mi parve così smunta. Come poteva assorbire tutta quella sofferenza, tutto quel trauma in un giorno solo?
Si sta corazzando contro il male, disse piano papà. Lo chiude fuori.
Sperava di lasciare noialtri, immagino, relativamente illesi. Una barriera che lei poteva permettersi di innalzare, una strana forza che aveva nel sangue per quel genere di impresa.
Il giorno seguente mi raccontò una visione che una sua amica aveva avuto di me, anni prima, quando ero in California e i miei non avevano notizie. Ero circondata da un anello di persone incappucciate, mi inserivo qualcosa di fallico nella vagina.
Mi prendi in giro?, strillai. Ero sconvolta, umiliata. A volte penso che sia la vagina il vero teatro di guerra tra bene e male, e la sua condizione – il rispetto che riceve, o quello che manca – una cartina al tornasole per l’equilibrio del decoro nel mondo. Mi sentii come se, anni dopo che ero uscita da lei, mia madre si stesse infilando dentro di me. È troppo affollato. Troppe persone qui dentro. Forse è per questo che sanguiniamo, per liberare le stanze. Pensate al peso che una donna dovrebbe sostenere, altrimenti.
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La puzza di bruciato iniziava a disperdersi. Mi accorsi che la dottoressa stava raccogliendo dei frammenti, li riponeva in un barattolo sterile. Le chiesi se potevo vedere.
Lei rispose, è sicura?
Non mi era venuto in mente che ci sarebbero stati dei campioni da raccogliere. Guardai nel barattolo. Oddio, dissi. Ma è un dito del piede!
Non è un dito del piede, rispose lei.
Erano frammenti della mia cervice. Non avevo mai visto niente del genere: una parte di me attraverso la plastica trasparente di un barattolo. Stavo iniziando a svanire? Mi disfacevo? Avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa, a qualcuno. Strinsi il braccio di mio marito e iniziai a camminare, con meno facilità di quanto avessi pensato. Uscii dalla clinica sotto il sole splendente di mezzogiorno, le foglie che si muovevano nella brezza leggera, nelle orecchie il lungo, fiero canto di un pettirosso.
Mio maritò aprì la portiera dell’auto e attese che fossi seduta prima di chiuderla con cura. Si sedette al volante e chinò la testa, il corpo si sgonfiò appena. Nell’ultimo periodo il suo viso si era come allentato, rifuggiva l’abituale compattezza. Doveva aver a che fare con l’invecchiamento, con i doveri di genitore, con lo sforzo di portare a casa il pane, con la fragilità delle cose, con la bellezza di nostro figlio, con un intervento rischioso che ti rimetteva con i piedi per terra. Avviò il motore e ci infilammo nel traffico cittadino, lentissime mandrie di buoi aggiogati.
Pensai di nuovo alla tentazione che avevo avuto di bruciare tutti i miei diari. Cosa speravo di ottenere? Cosa volevo dimostrare? Mi illudevo di evitare il dolore della perdita anticipandolo con un volontario atto di distruzione? Volevo assumere il controllo sulla mia inevitabile cancellazione? Stavo svilendo qualcosa? Oppure cercavo di evitarmi un po’ di imbarazzo? Forse, raggiunta la mezza età, tentavo solo di allentare la stretta della memoria, di fare spazio per potermi reinventare distruggendo le testimonianze di chi ormai non ero più. Questa ipotesi la preferivo a tutte le altre.
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Titolo originale, Coming Apart, copyright @ Christine Pountney, all rights reserved.
Traduzione di Federica Principi.