Questo pezzo è apparso originariamente su Brick n.96, inverno 2016
In caso di cucciolate sgradite, il contadino Minz optava per la morte via pala: un colpo ben piazzato su ciascuna scatola cranica. Si era appena chinato sull’ultimo cucciolo della fila quando ci eravamo fatti avanti nella luce del tramonto che inondava il fienile.
«Fermo!» aveva gridato mio padre.
Minz si era guardato intorno, con espressione stranamente mite. «Oh, ciao Al. Faresti meglio a tener fuori i bambini finché non avrò finito».
Avrò avuto cinque anni, mio fratello sei, ma mio padre non era tipo da nasconderci la verità. «Sta’ fermo, Len». Si era fatto avanti con noi due al seguito.
Ce n’erano quattro: dei fagottini neri e marroni, avvolti dal fascino della morte. Il quinto era diverso, sul dorso aveva una macchia rossiccia. Ci fissava con lo sguardo ancora perso nel vuoto.
«Maschio?» aveva chiesto mio padre.
Minz lo aveva guardato. «Dovresti dargli il biberon. Che dirà la tua signora?»
Dargli il biberon. Riuscivo a sentire quel peso leggero che si sistemava tra le mie braccia, niente a che vedere con la mia bambola rosa. La vera madre era il San Bernardo che avevamo incontrato durante le visite precedenti: una bellezza maestosa e paziente che inseguivamo per il cortile. Rinchiusa nella stalla in fondo, aveva iniziato a ululare quando mio padre si era inginocchiato sulla paglia davanti ai suoi cuccioli.
E il padre? Per noi era soltanto un’ombra simile a un lupo; un husky non addomesticato che correva a nascondersi tra i pioppi quando il nostro furgone entrava nel cortile dei Minz. Era un famigerato sterminatore di galline. Ogni tanto se la prendeva anche con i vitelli dei vicini, ma Minz si rifiutava di abbatterlo. Ed ecco il figlio di quell’ombra, con gli occhi tristi di sua madre, ancora vivo, come il suo papà. Mio padre aveva guardato lui, poi mio fratello, poi me.
«Be’? Che ne dite?»
Nella versione narrata da mio padre siamo stati noi bambini a urlare Fermo! Siamo scesi dal furgone per cercare i figli dei Minz, o forse il loro San Bernardo. Sul retro del cortile ci siamo imbattuti nel signor Minz con il suo fucile.
«Aspetta un attimo» dico al telefono. «Un fucile?»
«Papà, papà, corri!» fa mio padre con una vocina: sa bene come si racconta una storia.
«Era l’ultimo, giusto? L’unico ancora vivo?»
Il silenzio colma lo spazio tra di noi: quattro province e mezza separano casa sua dalla mia. Me lo immagino seduto in veranda, mentre guarda verso il cedro bagnato dalla pioggia che fa ombra sul viale. «Questo non lo so» dice alla fine.
«Era bellissimo» dico io, in ritirata da tutto il male che ancora una volta stavo riportando a galla. «Con quella macchia rossa nel pelo».
Riesco a vedere mio padre annuire, mentre fissa il suo riflesso sul vetro.
Ma tanto che differenza fa? Pala o fucile, che sia stato mio padre o noi a gridare, a chiamarlo di corsa, a trascinarlo per la mano. L’importante è che abbiamo salvato la vita a quel cucciolo. A meno che non lo chiediate a mia madre.
«La fattoria dei Minz?» dice quando la chiamo per un riscontro. «No, erano i Keddy. Coppia inglese, lui insegnava con tuo padre. Dai Minz ci prendevamo il latte. E ci andavamo a pattinare: vostro padre vi portava a pattinare lungo il torrente ghiacciato».
Prima che inizi a contestare, ecco le prove tornarmi in mente: il torrente dei Minz che si snoda tra i giunchi, il latte dei Minz nei contenitori da quattro litri.
«Lisie,» dice mia madre «ci sei ancora?».
«Ci sono. E allora perché eravamo lì?»
«Dai Keddy? Per prendere il cane».
«Il cane…? Eravamo lì per prendere un cucciolo?»
«Esatto, il loro San Bernardo aveva avuto una cucciolata».
«E abbiamo preso l’ultimo, quello che il signor… Keddy non aveva ucciso».
«Ucciso? No, tesoro. Li stavano regalando».
Non so perché sono sorpresa. Funziona così nelle famiglie che si separano, non si tramandano le storie importanti, non si è tutti d’accordo, sulla loro forma, sulle misure. Potrei chiedere a mio fratello: a sei anni si dovrebbe capire qualcosa in più che a cinque. Il problema è che lui è bravissimo a dimenticare le cose. Lascia che i frammenti restino sepolti al loro posto.
Mi ricordo un tunnel luminoso, una corteccia pallida apparire a tratti, la luce che filtra tra le prime foglie. La strada sterrata tra i boschi dell’Alberta. Mio padre al volante del pick-up e noi tre – io, mio fratello e il nostro cane – sballottolati nel cassone. Non più cucciolo, Pompeius Maximus era cresciuto in accordo con quel suo ridicolo nome. Di solito lo chiamavamo Pompey. Elegante e buffo al tempo stesso, gli calzava come un guanto di pelliccia.
Aveva visto un cervo: un accenno di corna tra gli alberi. Quando si era girato mostrando la coda come un segnale, Pompey aveva preso lo slancio e si era buttato.
«L’ho visto dallo specchietto» dice mio padre, e per un attimo lo vedo anch’io: il bagliore rossiccio, la sua figura che rotola dietro di noi.
«Per fortuna c’era il ghiaccio» aggiunge mio padre. «Facevamo i 30 o giù di lì».
«Il ghiaccio?» dico io. «Ma era primavera».
«No, eravamo andati a pattinare sul lago Baptiste».
«Ma se stavamo nel cassone. Eravamo con lui quando è saltato giù».
«No no, eravate davanti con me. Ho accostato e sono tornato indietro a prenderlo».
«Lo hai riportato in braccio?»
«In braccio? Ma se pesava quasi quanto me. E poi riusciva a camminare. Era dolorante e un po’ imbarazzato, ma non aveva ossa rotte. L’ho portato davanti, mi ricordo, e si è raggomitolato a terra». Dalla voce si capisce che sta sorridendo. «Voi due gli tenevate i piedi sopra».
Inizio a ricordare, i nostri piedi in degli stivalacci poggiati sul fianco di Pompey. Avere due cani da neve come genitori significava aver ricevuto in dono un folto strato di lana pesante. Inverno. Il cervo avrà avuto fame, magari stava mangiucchiando dei rametti.
«Aveva visto un cervo» dico.
«Eh?»
«Pompey, ecco perché era saltato giù».
«Ah. Ho sempre pensato che avesse troppo freddo».
È mia madre a risolvere il mistero. «Dio mio» ride. «E poi c’è stata quella volta che è saltato giù dal furgone».
«C’eri anche tu?»
«Certo. Aveva visto delle mucche – non so perché lo hanno fatto innervosire, attraversavamo di continuo campi pieni di mucche – ma lui le ha viste ed è scappato».
E quindi, non un salto ma due. Tutto torna: mia madre con noi quando c’era bel tempo; a casa a leggere o a scrivere vicino alla stufa a legna quando faceva freddo. Mi piace immaginarla sola e assorta, anche se all’epoca la cosa mi turbava. Loro due non hanno mai avuto granché in comune. A lei tornano in mente le cose divertenti: un cane assetato di sangue, suo marito che lo insegue attraverso un campo. Lui ricorda la strada ghiacciata, il rischio che avevamo corso.
Era attratto dalla morte: i cani lo sono quasi sempre, essendo in parte saprofagi. Tutti con l’istinto di esaminare le carcasse, ma solo alcuni con un’indole da lupo tale da gettarsi su quel che trovano. Pompey era audace, sempre in giro alla ricerca di carogne, di corpi parzialmente sbranati.
«C’era un gran casino» dice mio padre. «Si capiva che era stato un mammifero, ma niente di più. L’aveva sparsa ovunque. Ce l’aveva dappertutto quella…poltiglia».
Faccio una smorfia, allontanando il telefono dall’orecchio.
«Gesù, quel tanfo» sta dicendo quando lo riavvicino. «Ti ricordi come lo chiamavo? “Vecchio Puzzone”».
Annuisco. «Andava matto per i pesci morti».
«Cristo, sì. E quella foca portata a riva dalla corrente».
«Foca?»
«Ma sì, in fondo alla nostra piccola baia».
«Ah. Sì».
È andato avanti di qualche anno, quando ci eravamo lasciati alle spalle gli inverni luminosi dell’Alberta per le foreste pluviali della costa Ovest dal forte odore di funghi. All’epoca ero una vivace bambina di nove anni. La nuova casa era più grande, con un bosco sul retro e un cortile fatiscente verso il mare. Una casa da sogno. E noi quattro – o forse dovrei dire cinque – sul punto di aprire gli occhi.
«L’ha fatta esplodere» aggiunge mio padre. «Era tutta gonfia, e lui ci si è buttato sopra e l’ha fatta scoppiare come un palloncino».
Mi immagino Pompey che si rotola tra quel marciume, ricoprendosi di grasso e sangue. Eravamo disgustati, mia madre, mio fratello e io. Soltanto mio padre rideva.
«Dio solo sa quante volte ho lavato quel cane. Stavo sempre a infilarmi l’impermeabile giallo».
Nel momento stesso in cui lo dice, l’immagine si fa chiara – lui che srotola il tubo dal gancio, giallo come un limone dentro alla tuta, alla giacca, tutto tranne il cappello da pioggia. È utile avere un padre per nulla schizzinoso. Cambiava pannolini già prima che la maggior parte degli uomini iniziasse a chiedersi se avrebbe dovuto farlo, ripuliva le nostre ferite con la calma e la concentrazione di un’infermiera.
Quando siamo arrivati sulla costa era depresso – Pompey, intendo. Aveva scovato una cavità sotto la veranda e si era messo a scavare, la caricatura di un cane che va a nascondersi per morire. Questa era la casa di Victoria, punto di passaggio verso una piccola cittadina isolata, un sogno con vista sull’oceano. Il penultimo tentativo.
«Credo fossero le limitazioni» dice mio padre. «Prima non avevamo mai dovuto legarlo».
Mi appare in mente il cortile dell’Alberta visto dall’alto – dalla casa sull’albero, capisco, una piattaforma grezza tra i grossi rami resinosi. C’è la cuccia, rivestita per somigliare a casa nostra, ed ecco anche Pompey, che trotterella da un angolo all’altro marcando i confini del suo territorio.
«Ogni tanto saltava la recinzione». Mio padre ride tra sé. «Una volta è tornato con una bella spruzzata di puzzola. E un paio di volte è tornato con il muso ricoperto di aculei». Il suo tono è sereno – il che è strano, visto che sta raccontando un incidente fastidiosissimo e un paio di episodi davvero dolorosi. «Una volta mi ha chiamato un allevatore» continua. «Pompey stava infastidendo il suo gregge. “Ti consiglio di venire a prenderlo” mi ha detto quel tipo, “prima che io afferri il fucile”. Una volta mi hanno chiamato anche i Mountie. Stessa storia, vieni a prenderlo altrimenti…»
«I Mountie avevano una fattoria?»
«No». Mi lascia in sospeso per un attimo. «Ma avevano una cagna in calore».
Ecco perché Pompey si era mostrato riluttante di fronte al cambiamento – le case pittoresche e i fiori di ciliegio, il collare e la catena nel cortile dietro casa. Solo la spiaggia lo riportava in sé. Quando passeggiavamo sulla scogliera che costeggiava il parco verso gli scalini tortuosi, lui si buttava giù a capofitto, precipitandosi oltre il bordo per poi finire sulla ginestra spinosa. Ci precedeva sulla spiaggia di ciottoli e andava dritto verso la spuma. Ogni onda era un gioco. Immerso fino al collo, ne azzannava le creste schiumose.
«Adorava l’acqua» dico.
«Poco ma sicuro. Poi c’è stata quella volta, ti ricordi – be’, tu non c’eri, eravamo solo noi due a Slave Lake. Qualcosa deve averlo punto – forse un tafano – ma in ogni caso, un attimo prima se ne stava sdraiato nella canoa e quello dopo sembrava impazzito. Ovviamente ci siamo ribaltati – io, il cane, la pagaia, tutto. Nuotavo con una mano sola, mentre trascinavo la canoa rovesciata e un sacco della spazzatura pieno di roba, e Vecchio Puzzone sguazzava dietro di me, cercando di salirmi sulla schiena. Finirai per uccidermi, idiota. Scendi. Cristo, siamo riusciti a tornare a riva per miracolo».
Io non dico nulla. Ha ragione, non c’ero. Forse è stata una di quelle volte in cui, anziché alzare la voce in risposta a quella di mia madre, aveva raccattato provviste sufficienti per un giorno ed era sparito.
«Il campeggio» dice dopo un istante. «Ti ricordi il campeggio invernale? Noi tre nella tenda?»
Mi ricordo, sì. Tremavo nella tuta da sci, dentro il sacco a pelo, tra due materassini verdi dai bordi incollati. Per mio padre e mio fratello era l’ideale – loro due avevano sempre un gran caldo. Una volta che per qualche strano motivo mi ero riempita le muffole di neve, mio padre si era tirato su il maglione e si era poggiato le mie mani nude sulla pelle. Ecco fatto. Come se fosse una stufa anziché un uomo, con la pancia imbottita di brace.
«Pompey si era fatto la sua tenda» aggiunge. «Aveva solo scavato, e al mattino c’era questo piccolo comignolo, questo buco nella neve che sputava fuori vapore». È un pensiero felice, Pompey raggomitolato nella sua tana di ghiaccio. Lo assaporiamo insieme per un istante. E poi, «Tua madre non c’era».
«No…»
«Preferiva starsene a casa a leggere. A scrivere le sue poesie».
Sono passati decenni e lui lo dice ancora con rancore. Chi può biasimarlo, ha continuato a scrivere allontanandosi ogni giorno di più.
Ce ne siamo andati dalla casa da sogno a turno; mio padre è andato a stare da un’amica in città mentre mia madre raccoglieva le sue cose. È successo allora, o almeno così dice mio padre. Lei doveva stare lì, impreca, ma aveva deciso di passare la notte in città – e non con un’amica, ma con il bastardo che aveva distrutto la loro vita.
Divertente, perché mia madre e io lo ricordiamo come successo dopo, quando noi due ci eravamo già trasferite nell’appartamento in centro. L’altra metà di quel che eravamo stati – mio padre e mio fratello – stava ancora a casa dell’amica di mio padre. La casa sull’oceano era rimasta mezza vuota. L’unica cosa sensata era che la figlia dell’amica e il fidanzato boscaiolo ci abitassero finché non fosse stata venduta.
Me li immagino felici – diciott’anni o giù di lì, mentre si scolano una birra dopo l’altra e fanno il bagno nudi nella nostra piccola baia. È stata colpa loro se Pompey è scappato. Non se ne sono nemmeno accorti finché non si è trascinato fino a casa.
«Forse non ti piacerà sentirlo,» dice mio padre «ma ero così arrabbiato con tua madre, ero così…furioso. Lo aveva lasciato, così. Lo aveva lasciato libero».
Per come la racconta lui era stato un vicino a telefonare, non la figlia o quel boscaiolo.
In ogni caso, mio padre aveva guidato come un pazzo omicida, facendo durare la metà un viaggio di un’ora. Ovunque giacesse Pompey – il nostro cortile, quello dei vicini – aveva il pelo completamente coperto di sangue. Era fatta, aveva pensato mio padre, fine dei giochi. Ma poi la cassa toracica si era mossa.
Quando aveva operato Pompey, il veterinario aveva trovato un proiettile a punta morbida, uno di quelli che si espandono una volta entrati. Si era fermato in un punto delicato, così vicino all’aorta che lui non aveva il coraggio di estrarlo. «Potrebbe andare tutto bene» aveva detto a mio padre. «O potrebbe spostarsi e ucciderlo. Bisognerà aspettare e vedere come va».
L’allevatore che aveva sparato al nostro cane ne aveva tutte le ragioni: Pompey stava rincorrendo le sue pecore.
«No» dice mia madre. «Non erano pecore. Erano capre».
E la sua colpevolezza – o la sua innocenza – sta tutta qui. Poco prima di andarsene per sempre, aveva fatto una passeggiata con il cane di famiglia. Insieme avevano camminato lungo la litoranea spingendosi più lontano che mai, ed erano passati vicino a un pascolo di capre. Ventre gonfio e occhi di traverso, le più giovani con quella straordinaria energia. Non mi stupisce che abbiano risvegliato il lupo che scorreva nel sangue di Pompey.
«Ricordo che hanno attirato la sua attenzione» ammette. «Ho dovuto reggerlo per il collare e trascinarlo via».
Credo sia stato mio padre a trovare il nodulo. Secondo mio padre sono stata io. Stavamo spazzolando la lunga pelliccia rossastra sulla schiena di Pompey quando le nostre dita sono finite su qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Cancro, abbiamo pensato, meno di un anno dopo che gli avevano sparato. Ancora una volta il veterinario lo ha sedato e ha impugnato il bisturi – ma stavolta c’erano buone notizie. Il nodulo che aveva rimosso dalla schiena del nostro cane era un piccolo piombino deformato.
È sopravvissuto – per quattro, cinque anni dopo che quel falso tumore ci aveva spaventati a morte. Quelli veri erano invisibili. Ce li aveva ormai in tutto il corpo quando mio padre ha ammesso che era più di un vecchio cane ormai stanco.
«Ci ha messo un bel po’ ad andarsene» dico.
«No… No, era apatico, non aveva appetito, e così l’ho portato a visitare. Gli hanno fatto i raggi e lo hanno soppresso subito».
«Ma…» Dovrei stare zitta. Lo farei se volessi essere buona. «Ricordavo che ci erano voluti dei mesi».
Niente. Poi, «No, quello era Shilo».
Shilo? Il pigro cane d’appartamento che era arrivato dopo Pompey, poco prima che io e mio fratello ce ne andassimo di casa? Ma, papà, riesco a trattenermi dal dire, me ne ero andata da un pezzo quando Shilo è morto. E comunque, mi ricordo Pompey disteso sul tappeto di fronte alla porta sul retro. Ricordo la sua puzza, lui che si faceva sempre più piccolo sotto quella splendida pelliccia, e la tua nuova moglie dire che forse era giunto il momento, e tu saltar su e mettere le cose in chiaro. Ce lo porterò appena lo vedrò soffrire. Non appena me lo farà capire.
Lo aveva fatto nel cuore della notte, con un guaito agghiacciante che aveva tirato giù mio padre dal letto. Il pronto soccorso veterinario nelle prime ore del mattino, appoggiati alle porte di vetro – una morte come un’altra. Molto meno tragica dell’essere massacrato con i propri fratelli, o di un balzo verso la morte su una strada secondaria, o di annegare con il proprio padrone in un lago isolato. Neanche lontanamente romantica come farsi sparare al cuore.
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Titolo originale, In Memoriam Pompeius Maximus, copyright @ Alissa York, all rights reserved.
Traduzione di Valentina Muccichini