«La politica è il presente, è quello che sta succedendo ora, e possiamo reagire nel presente o evitarlo».
Questa intervista è apparsa originariamente su The Believer, settembre 2013
Affascinanti ma sopravvalutati:
Il cowboy silenzioso, forte
La facciata fredda e intelligente del mondo dell’arte
La donna silenziosa, misteriosa
So che c’era un tempo in cui non avevo letto I Love Dick di Chris Kraus (in effetti era solo cinque anni fa), ma è difficile da credere. Alcune opere fanno questo effetto, distruggono così tanti preconcetti su quello che una determinata forma letteraria può trattare (in questo caso la forma del romanzo), che non c’è modo di tornare con la mente a prima di incontrarle. Ricordo che vidi questo libro su una mensola dell’appartamento che avevo affittato per un’estate a New York. Con un titolo del genere come potevo ignorarlo? Una volta iniziato, non lo mollai prima di finirlo.
Profondamente femminista, privo di controllo ma anche profondamente in controllo di ogni cosa, I Love Dick percorre l’ossessione di una donna sposata (Chris) per un uomo che ha appena conosciuto (Dick), per lo più attraverso le lettere che gli scrive. L’uomo è in larga parte frutto delle sue proiezioni e desideri, e il marito (basato sul teorico francese Sylvère Lotringer, per molti anni compagno della Kraus) in parte la asseconda. Presto tuttavia l’ossessione della donna travalica l’aspetto erotico giungendo al politico e all’inspiegabile: perché lei non ha lo stesso potere di quest’uomo? Potrebbe mai averlo? Cosa potrebbe ottenere con le sue lettere? Il libro trae ispirazione dalle esperienze della vita dell’autrice, dal suo matrimonio e dalle lettere a un uomo realmente esistente, di cui ha incluso l’unica risposta, indirizzata a suo marito: un pugno nello stomaco (l’uomo rimase inorridito dalla pubblicazione del libro).
La Kraus cominciò la sua carriera nella scena post-punk newyorchese degli anni Ottanta, come regista di poetici film sperimentali. Il Village Voice ha lodato i suoi film in occasione di una recente retrospettiva, citando il loro «umorismo selvaggio, l’intelligenza e l’acume». Vive a Los Angeles, ma viaggia di continuo in Nord America e in Europa, invitata a parlare delle sue opere. È anche, significativamente, creatrice e editor della catena Native Agents di Semiotext(e), che pubblica autrici radicali e femministe come Kathy Acker, Eileen Myles, Kate Zambreno e Michelle Tea.
Questa intervista si è svolta a Toronto, in occasione della sua partecipazione a un panel sullo scrivere di sesso organizzato da me e alcuni amici. Il giorno seguente è venuta a casa mia, dove abbiamo parlato al tavolo dello studio, bevendo del tè.
Chris Kraus ha scritto nove libri tra narrativa e saggistica. La sua più recente collezione di saggi sull’arte si intitola Where Art Belongs, e il suo ultimo romanzo è Summer of Hate. Fin dal principio della sua carriera, i suoi lavori hanno comunicato con forza i meccanismi (spessi diabolici) del potere, sui quali continua a fare esperienza.
—Sheila Heti
I. UN PESO SUL CUORE
THE BELIEVER: Che cosa ti ha fatto dire, per Summer of Hate, «questo è il libro che voglio scrivere»? Com’è cominciata la stesura?
CHRIS KRAUS: Il libro affronta delle esperienze di cui ho scritto mentre le vivevo. Avevo una relazione con un uomo incontrato ad Albuquerque, che aveva passato del tempo in carcere per crimini non violenti, legati all’abuso di sostanze. Come Paul Garcia nel libro, anche lui era tornato a scuola, ma fu arrestato in Arizona mentre stava andando ai corsi estivi della UCLA per un reato vecchio di dieci anni. Questo successe nel 2006. Chiaramente fu un trauma, ma fu anche estremamente interessante dal punto di vista della scrittrice, perché anche prima di incontrare la persona che ha ispirato Paul Garcia mi sentivo profondamente a disagio riguardo la mia vita nell’industria dell’arte negli Stati Uniti. Dal 2002 o 2003, mentre mi svegliavo a Los Angeles, lavoravo scrivendo d’arte e insegnavo arte all’università, ero assolutamente consapevole dell’orrore che si consumava al di fuori della mia «bolla», con l’atmosfera paramilitare diffusa dalle operazioni di guerra in risposta all’undici settembre. L’arresto di quell’uomo mi trascinò più vicino alla realtà, alla reale portata di quella brutalità, e quasi lo accolsi con piacere. Avevo già desiderato parlare delle forme morbide, psicologiche, della brutalità che stavamo vivendo, ma era quasi impossibile. Era già tutto troppo radicato, mi era difficile trovare un modo di trattare quegli argomenti senza risultare ancora più marginale. Mi sentivo davvero come se stessi vivendo in uno stato di polizia, contribuendo alla sua esistenza.
BLVR: Una delle cose che ho trovato più interessanti di Summer of Hate è il senso di rabbia e ingiustizia che dimostri, o che dimostra il personaggio di Catt. Le giunge quasi come un’esperienza completamente nuova.
CK: Sì. Se apri gli occhi e guardi quali sono i problemi che ci preoccupano del nostro angolo di mondo occidentale, nel mondo dell’arte e della letteratura, ti accorgi che sono tipo boom, così insulsi e riduttivi. Ti volti di 180 gradi e ti appaiono dei problemi completamente diversi. Non è che Catt sia inconsapevole di quello che succede nelle carceri, ma averci a che fare a livello personale, vederselo sbattuto in faccia, è una cosa diversa. Puoi leggere delle prigioni, o dei genocidi nel Darfur, ma non sembrano molto reali, non sono parte del tuo mondo. Specialmente negli Stati Uniti, tutto il sistema si è sforzato di tenere l’esperienza della prigione quanto più lontana possibile dal «pubblico», di rendere i prigionieri quanto più «alieni» possibile. Non credo che sia sempre stato così. Credo che vada di pari passo con l’annullamento della storia della classe operaia. Storicamente ci sono sempre state persone, persone normali, con familiari, amici, cugini che hanno passato del tempo in carcere.
BLVR: Questa nuova consapevolezza ti ha fatto sembrare lo scrivere di arte una faccenda di poco conto?
CK: Sì, ed è stato anche peggio quando, credo dopo Abu Ghraib, il mondo dell’arte si è impegnato nella «questione politica». Il concetto di «questione» la rendeva completamente apolitica.
BLVR: In che senso?
CK: Occupandoci della «questione politica», piuttosto che di «politica», abbiamo a che fare con un’astrazione. Perché la politica è il presente, è quello che sta succedendo ora, e possiamo reagire nel presente o evitarla. Invece mi sentivo malissimo a scrivere per queste riviste, «impegnate nella questione politica» ma che non dicevano niente riguardo l’arresto, grazie al Patriot Act, di artisti contemporanei. Parlare di quello che succedeva davanti ai nostri occhi era considerato così fuori moda, così ovvio e indelicato. Tutti i giorni mi svegliavo in una sorta di nuvola, con un peso sul cuore, e mi era impossibile uscirne a causa di quel silenzio imposto preventivamente. È come quando tutto è talmente evidente, talmente noto a tutti, che anche parlarne è banale. Non se ne poteva parlare.
BLVR: Quindi all’epoca della tua relazione con quest’uomo e di quello che gli è accaduto hai pensato, questa è un’opportunità per parlare di politica?
CK: Esatto! È stato come dire, D’accordo, ci sono. Non devo cercare un modo per farlo, ci sono dentro.
II. IL VERO PAZZO
BLVR: Perché fare sesso con una persona speciale, o magari anche amarla, forniscono all’autore una via d’accesso a un determinato problema, che non è possibile ottenere semplicemente leggendone?
CK: Quando hai una relazione importante con qualcuno i suoi problemi diventano i tuoi, e viceversa. È una famiglia. Una volta che qualcuno è entrato nella tua orbita famigliare si crea una responsabilità reciproca, e quello che succede a loro succede anche a te.
BLVR: Ma è così frustrante dover affrontare queste nuove esperienze, il fatto che non ci sia altro modo per scrivere, perché così bisogna sempre stravolgere la propria vita!
CK: È vero! Ed è così ridotto, il numero di esperienze che ci si può costringere a fare nel corso di una vita. Sarebbe meglio avere un potentissimo potere empatico. Non solo un potere empatico però, ma una conoscenza incredibilmente specifica e dettagliata.
BLVR: È una delle cose che mi ha colpito del tuo libro. Pensavo, Chris ha una conoscenza incredibilmente dettagliata del sistema carcerario.
CK: Già. Come sono fatti gli specchi. Il modo in cui i tavoli sono fissati ai muri. Come si comportano nella mensa. Tutte queste cose.
BLVR: Non le avresti mai sapute senza quella storia.
CK: Vero.
BLVR: Ma altri, sai, vanno in biblioteca. [Ride]
CK: Ad esempio, mi è stata portata una delle penne concesse ai detenuti della prigione di Greenlee County a Clifton, Arizona. È più sottile di una cannuccia, impossibile da tenere in mano. Non c’è nessuna ragione di sicurezza per la quale debba fare così schifo, lo fa e basta. Andrebbe tenuta come uno scalpello, e anche in quel caso è quasi impossibile scriverci. Sì, certo, avrei potuto leggerlo su Wikipedia, ma non avrebbe avuto lo stesso significato che riceverla da qualcuno che amo, tenerla in mano e provare a scriverci. Era una cosa molto viscerale: Fa schifo. È una tale inutile umiliazione per quelle persone.
BLVR: È come se quello che scrivi non scaturisse da una curiosità disinteressata, ma da una curiosità interessata e dall’essere coinvolta in determinate situazioni. Perché quelle sono sensazioni che non si possono sbrogliare. Per me scrivere è in parte una questione di sbrogliare sensazioni impossibili da sbrogliare altrimenti, e leggere una voce di Wikipedia non ti dà quelle sensazioni. Le vivi solo attraverso un’esperienza diretta.
CK: È vero, perché complica le cose in un modo che solo la scrittura può risolvere.
BLVR: Sì, essere parte dell’esperienza la rende complicata.
CK: Ma è perché entrambe abbiamo fatto teatro! C’è una citazione che voglio farti sentire.
BLVR: Vai.
CK: «Il vero pazzo non si accontenta di raccontare storie; le deve recitare». [Ride] È di Fanny Howe.
BLVR: Bella!
CK: Parla di noi.
BLVR: Parla degli attori. Tutte e due abbiamo avuto una formazione da attrici…
CK: L’unica che abbiamo avuto.
BLVR: Tu hai cominciato facendo l’attrice, e anch’io ho fatto l’attrice da giovane. Quindi… significa che acquisiamo le conoscenze facendone un’esperienza diretta coi nostri corpi?
CK: Esattamente. Come attrice vivi qualcosa attraverso la durata dell’opera. Ho sempre considerato lo scrivere allo stesso modo. È come se mi muovessi attraverso il paesaggio del libro come un’attrice, ma questa volta sto trascrivendo. Letteralmente, vedo il mio scrivere come una trascrizione di quello che vedo, sento, penso, vivo. Sono sempre stata un’estimatrice della scrittura semplice. Odio i testi pieni di metafore, lirici, ornamentali.
BLVR: La trascrizione è completamente diversa dal memoir, vero?
CK: Direi di sì.
BLVR: Il memoir ti costringe quasi a bloccarti, a trattenerti.
CK: Spinge a non privilegiare la trasformazione emozionale del narratore rispetto ad altri tipi di esperienza. Lo odio. L’epifania dell’individuo, con le vite altrui sullo sfondo. Che falsità! E alimenta un narcisismo così meschino. E il bello è che non è quello che la gente prova. La gente prova noia. La gente prova tante cose che non trovano posto in quelle storie.
BLVR: Senti che le vite degli altri facciano da sfondo alla tua?
CK: No!
BLVR: Allora qual è la relazione tra la tua vita e quelle degli altri?
CK: Mutevole.
III. HIMES, ELLROY, HIGHSMITH, BALZAC
BLVR: Per te che cos’è l’opposto della trascrizione?
CK: Mmh… inventarsi le cose? Specialmente cose che non hanno niente a che fare con te, o meglio, non hanno a che fare con niente. Magari una delle ragioni per cui ci ho messo così tanto a cominciare a scrivere è che la maggior parte della letteratura contemporanea ha così poco a che fare con persone vere come quelle che ho incontrato. Preferisco una scrittura credibile, con personaggi che sembrano persone reali. Chester Himes, James Ellroy, Patricia Highsmith, Balzac, tutti i miei libri preferiti hanno questa caratteristica.
BLVR: Quindi le opere di pura immaginazione ti lasciano fredda?
CK: Beh, immaginazione è un modo garbato per dirlo…
BLVR: E qual è quello sgarbato?
CK: Menzogna, masturbazione…
BLVR: Allora non hai alcun rispetto per la parola immaginazione?
CK: Oh, sì, penso che l’immaginazione sia una cosa meravigliosa.
BLVR: Quale pensi che sia la sua giusta collocazione?
CK: Favole, infanzia, mondo naturale. Guardare un oggetto e lasciare che ti racconti una storia. Si può cominciare dalla trascrizione per spostarsi su qualcos’altro tramite un processo di associazione, e chiamare la catena di associazioni «immaginazione». Voglio dire, è propria dell’infanzia no? La capacità di fare associazioni. È un danno collaterale dell’età adulta il fatto che se ne goda sempre di meno, specialmente ora che solo in pochi hanno una cultura abbastanza ampia.
IV. TUTTI SONO IN UNA SITUAZIONE PRECARIA
BLVR: Nel tuo libro Aliens and Anorexia citi Simone Weil in relazione a una cosa che chiami «filosofia dell’interpretazione»”. La Weil doveva, voleva lavorare, per capire la sofferenza dell’operaio in fabbrica.
CK: Giusto, doveva farlo.
BLVR: Barbara Ehrenreich, la accosteresti a lei?
CK: È un libro meraviglioso, Nickel and Dimed, ed è incredibile che a nessuno sia venuto in mente di scriverlo, prima di lei. Chi lo sapeva che i lavoratori delle caffetterie dormissero nei loro furgoni perché non potevano permettersi l’affitto? Il progetto di Ehrenreich era giornalistico, e molto importante. Ma il racconto di Weil sul lavoro in fabbrica è più letterario. È scaturito da un suo bisogno, che qualcuno chiamerebbe bizzarro e indifendibile, e la sua scrittura trasmette l’esperienza psichica di quel tipo di lavoro.
BLVR: Com’è per te, a livello emotivo, entrare nella pelle di qualcuno privo della cultura letteraria che hai tu, piena di letture e riferimenti?
CK: Be’, molto frustrante. Perché in un certo senso ti scontri contro un muro. Il meccanismo dell’associazione ti conduce a un mondo più grande, ad altre persone e cose. Non averlo è come una specie di prigione, una prigione che limita la coscienza, i punti di vista e i legami. Ogni cosa è ripiegata su se stessa, focalizzata sul sé. Senza associazione non c’è interiorità. Non c’è vita interiore.
BLVR: Qualcuno mi ha fatto recentemente notare che la gente coi soldi può andare dal terapista, ma la gente che non se lo può permettere deve leggere i libri di auto-aiuto. Non avevo mai pensato a quei libri come a una sorta di terapista per le classi povere. Ma quello che hai detto mi fa pensare che in un certo senso quei manuali possano aggravare il problema, perché a differenza delle persone con problemi che però leggono cose che accrescono la loro cultura e capacità di associazione, e quindi libertà, chi legge i manuali di auto-aiuto si trova ripiegato su se stesso.
CK: Giusto. Si tratta di me e del mio problema, come lo risolvo? Un libro di auto-aiuto non può davvero risolvere un problema a meno che non sia un problema individualizzato. Di certo non si tratterà di un problema globalizzato. Uno dei primi tra questi libri, What Color Is Your Parachute?, presagiva il taglio di oltre metà della forza lavoro da parte delle aziende americane. Parlava del modo in cui diventare un imprenditore di se stesso: non dovresti fare affidamento su un singolo lavoro, perché dovrai saltare da un mestiere all’altro. Probabilmente diventerai, come se fosse una cosa meravigliosa, un freelance, che si paga i bonus da solo. È stata la fine dell’idea che avendo un lavoro e giocando secondo le regole, saresti stato più o meno a posto. Non è più vero. Non c’è più sicurezza, tutti sono in una situazione precaria.
V. TUTTI SONO IN SITUAZIONI DIVERSE E HANNO I LORO MOTIVI
BLVR: Negli anni che hai trascorso con Sylvère Lotringer eri la moglie di un uomo che interessava a tutti. Era con lui che la gente voleva parlare. Mi chiedo cosa sia cambiato del modo in cui scrivi o del tuo posto nel mondo, ora che non state più insieme.
CK: Oh, ho quasi pianto dopo aver pubblicato il mio primo libro ed aver cominciato a tenere reading, quando la gente voleva parlare con me, e mi guardavano negli occhi e mi chiamavano per nome! Fantastico.
BLVR: Interessante, perché è in un certo senso paradossale. Si potrebbe pensare che stando vicino a qualcuno dotato di potere o influenza, tu possa acquisirne un po’, ma accade l’opposto…
CK: Già, ma non per colpa di Sylvère o delle persone direttamente coinvolte. C’è un enorme pregiudizio sulle coppie formate da un uomo maturo e una donna più giovane, quindi, se sei la donna in questa equazione sarai disprezzata o vista come un’escrescenza dell’uomo. È così assurdo, vero? E ora che sono la donna matura, devo sforzarmi di non avere gli stessi pregiudizi. È ingiusto dare per scontato determinate cose, tutti sono in situazioni diverse e hanno i loro motivi.
BLVR: Parliamo dell’editing di I Love Dick? Avevi duecento lettere su cui lavorare, che metodo hai adottato?
CK: Beh, sono andata nel deserto e ho affittato una casetta per sei mesi, e nei giorni in cui non tenevo lezioni andavo là. E mi dicevo tipo “Bene, farò cinque pagine al giorno, qui c’è la pila di lettere, qui la pila delle pagine finite”, e mi mettevo a lavorare, senza ansie.
VI. LE RELAZIONI SANE… COSÌ SOPRAVVALUTATE
BLVR: Continua a venirmi in mente l’immagine delle prigioni, la prigione costituita dalle istituzioni del mondo dell’arte, la prigione in cui hai vissuto quando nessuno ti guardava negli occhi o pronunciava il tuo nome, la prigione dell’immaginazione della classe operaia priva di accesso alla propria storia…
CK: Sì, credo che per me la più grande ingiustizia sia vedere la gente privata di quella interiorità e del processo di associazione.
BLVR: Poi c’è la tua fascinazione per Simone Weil, con la sua sublimazione autoimposta: per lei tutto sembrava essere sublimato. Immagino che l’unica direzione in cui muoversi da lì sia verso Dio.
CK: Non so. Nel mio caso, direi che tutto quanto è stato incanalato in una certa volontà, una spinta incredibile. Si può dire la stessa cosa di altri artisti e scrittori, di tutti quelli che producono una grande mole di lavoro in poco tempo. L’unico modo in cui si può produrre risultati massicci è attraverso quella spinta a lavorare che racchiude tutto il resto.
BLVR: Da dove credi che venga quella spinta?
CK: Dalla volontà!
BLVR: Qual era la volontà nel caso delle duecento lettere a Dick? Qual era il fulcro di quella volontà, o verso che cosa era indirizzata?
CK: A fare le cose nel modo giusto. Alla seconda o terza lettera, mi resi conto che c’erano un sacco di cose di cui parlare, che non avevano avuto modo di uscire nei quindici anni in cui avevo frequentato il mondo dell’arte. Era come se ci fosse qualcosa che doveva ancora essere espresso, e lettera dopo lettera non stavo più cercando solo di attirare l’attenzione di Dick – quella era diventata la piccola fantasia che lo rendeva possibile. La vera spinta era a fare le cose nel modo giusto, riuscire a parlare di quelle cose che pensavo fossero… be’, parlare dei miei fallimenti. Il libro era soprattutto un tentativo di analizzare le condizioni sociali che facevano da sfondo al mio fallimento personale.
BLVR: Cosa intendi per «fallimento»?
CK: La mia carriera di regista a quel tempo. Per qualche ragione i miei film suscitavano scarso interesse nel mondo dell’arte, o in qualsiasi altro contesto. E quello era un fallimento perché ci avevo lavorato davvero duramente. È stato il mio lavoro per oltre dieci anni.
BLVR: Hai smesso di scrivere quelle lettere a Dick perché a un certo punto hai pensato, «Ho espresso quello che dovevo esprimere»?
CK: Sì, ho pensato, «Ho detto quello che potevo su questo argomento». In realtà, quando ho cominciato a scrivere I Love Dick, sapevo che ci sarebbero stati tre libri: I Love Dick, Aliens, Torpor, che sarebbe stata una trilogia. Sapevo che ci sarebbero voluti tre libri per esaurire davvero quello di cui volevo parlare.
BLVR: Cioè di quel periodo della tua vita?
CK: E di tutto quello che lo circondava. Dato che la relazione tra Chris e Sylvère era il motivo alla base di I Love Dick, quali erano state le condizioni che avevano contribuito a formare una coppia così strana? In Torpor, sono risalita fino alla seconda guerra mondiale, all’olocausto e al passato di Jerome (il personaggio di Sylvère) come bambino sopravvissuto. Era una ricerca che puntava non solo a scoprire le storie di quelle persone, ma le forze che avevano originato quelle storie, una mini-saga.
BLVR: C’è una frase che mi piace, riguardo Sylvie, il tuo personaggio, e Jerome: «Vedeva un vuoto in lui; la spaventava. Voleva riempirlo». Questa, per te, è diventata l’essenza della vostra storia.
CK: Probabilmente tutte le relazioni potrebbero essere ridotte a due o tre frasi del genere.
BLVR: E, come hai detto, «non è meglio o peggio di qualsiasi altra storia», vero?
CK: Già. Le relazioni sane… sono così sopravvalutate.
BLVR: Non so neanche se ne ho mai vista una da vicino, tu?
CK: No! Che cos’è? Quella visione della normalità è solo una brutta forma di vicendevole egoismo. Consumo à deux. [Ride]
VII. RISPETTO PER L’APE OPERAIA
BLVR: Where Art Belongs è un libro molto interessante. Il saggio «Tiny Creatures», in cui descrivi dei giovani che creano una scena dell’arte alternativa intorno allo spazio espositivo Tiny Creatures, mi ha trasmesso una grande tristezza.
CK: Davvero?
BLVR: Sì, perché creano un mondo alternativo all’ambiente istituzionale, all’ambiente della galleria d’arte, ma in quanto alternativo quel mondo aveva tutte le caratteristiche, tutti gli ingredienti di altri mondi alternativi, come la New York anni Settanta, e così via. Quindi, come alternativa, non sembrava particolarmente innovativa, sembrava avere il DNA di un qualcosa proveniente dal passato che la mia generazione ha romanticizzato.
CK: È vero, ma quello era a causa dalla loro innocenza e mancanza di esperienza nel mondo dell’arte. Voglio dire, solo qualcuno che non abbia mai frequentato corsi di arte di altissimo livello potrebbe essere abbastanza innocente da dire, «Voglio creare qualcosa che somigli alla Warhol Factory!». Ti riderebbero dietro, all’università.
BLVR: Ma noi vogliamo avere qualcosa che somigli…
CK: Certo! Ma non lo puoi dire! [Ride] E quando arrivi alla laurea non lo pensi neanche più.
BLVR: E cosa pensi, invece?
CK: Vuoi solo trovare la nicchia di mercato in cui il tuo lavoro possa esistere il più a lungo possibile.
BLVR: Perché credi che buona parte dei tuoi fan, ne hai parlato tu stessa, siano più giovani di te?
CK: Ah, giusto, la parte del libro in cui «mi lamento della mia carriera». Be’, Sheila, lo fanno tutti, giusto? [Ride] No, il personaggio di Catt Dunlop si lamenta perché le sembra che i suoi lavori siano letti e apprezzati da persone più giovani e marginali di lei, ma non da quelli della sua età o che hanno raggiunto posizioni di maggior rilievo nel mondo della cultura.
BLVR: Ma forse gli adolescenti sono il pubblico ideale, il pubblico migliore che si possa desiderare, per la loro onestà, per il loro amore verso qualcosa di così puro…
CK: Oh, lo penso anch’io. Voglio dire, nei miei momenti migliori lo penso anch’io. [Ride]
BLVR: C’è una frase in I Love Dick: «Il fascino della semplicità e del silenzio mi aveva davvero fregato, come un sacco di altre donne». Cosa c’è di vero? Nel senso, cosa c’è al di là del fascino, secondo la tua esperienza?
CK: Aspetta, che fascino?
BLVR: Quello della semplicità e del silenzio. Credo che ti riferissi a Dick, a quello che lo rendeva attraente ai tuoi occhi.
CK: Oh, sì… sai, è sempre, tipo, un gran casino, no? Non è niente di simile a una sorta di apertura Zen, o di assenza di blocchi. È più, tipo, un casino alcolico.
BLVR: [Ride]
CK: Magari la gente non crede più in quel tipo di fascino, quello del cowboy forte e silenzioso.
BLVR: Beh, esiste ancora, ma è un po’ diverso.
CK: Già, più freddo. L’ho notato tra gente più giovane nel mondo dell’arte, la storia dell’uomo bianco, molto intelligente e molto freddo. Molto freddo. È tutta una facciata, no? Nasconde qualcos’altro. Per cui stanca. Nel corso di una vita, stanca. E ti trovi a voler stare con persone che sono più o meno come appaiono.
BLVR: Le donne avevano qualcosa di simile, no? La donna molto silenziosa, con quest’aura di mistero per cui gli uomini impazzivano. Non credo ci siano più tante donne così.
CK: No.
BLVR: Ma ce n’erano?
CK: Donne che potevano restare completamente in silenzio? Beh, sì, ma dovevano essere anche clamorosamente belle. E appariscenti, no? Non potevano certo essere ragazze zitte, brufolose e dinoccolate. [Ride]
BLVR: Lo vedi nelle ragazze nel mondo dell’arte? La bellezza e la mancanza di contenuti?
CK: No, non in quelle che incontro io. Quelle sono incredibilmente aperte e vive.
BLVR: Credi che le strategie delle giovani donne nel mondo dell’arte, le strategie per raggiungere il successo, siano diverse da quelle degli uomini?
CK: Sai, credo che in passato ci fossero più differenze. Tutti hanno lo stesso problema, quando si tratta di creare lo spazio per il proprio lavoro. Forse – e devo dire che è un aspetto positivo dei ragazzi – gli uomini di venti o trent’anni sembrano più pronti a quel tipo di lavoro ingrato, non riconosciuto e non retribuito ma assolutamente necessario, e sembrano in grado di farlo per periodi molto, molto lunghi, senza accumulare stress e risentimento. Capisci, sono più inclini a chinare la testa e faticare senza alcuna ricompensa, mentre le ragazze sembrano avere meno pazienza in questo senso, si aspettano di più, subito.
BLVR: Va a loro svantaggio?
CK: Non lo so, vedremo, ma ho sempre avuto un grande rispetto per l’ape operaia.
VIII. UN MODO PER SFUGGIRE ALLA PROPRIA CLASSE
BLVR: Per chiudere, vorrei chiederti se hai dei consigli sul ramo immobiliare, perché credo sia una buona idea investire in un campo diverso rispetto al mondo dell’arte, come hai fatto tu. Non solo dal punto di vista finanziario, ma perché in questo modo si assorbe un mondo con cui altrimenti non avresti contatti.
CK: Sì, è estremamente interessante e la gente è meno meschina che nel mondo dell’arte, perché si tratta solo di numeri. A un certo punto, invece di cercare un lavoro da ricercatrice, ho deciso di fare degli investimenti nel ramo immobiliare e di gestire queste proprietà, affittandole a prezzi ragionevoli a famiglie con basso reddito. Comprare e riparare, quindi affittare e gestire queste proprietà è stato un modo per interagire con una parte di popolazione completamente al di fuori del mondo della cultura. Più o meno come nella cultura gay, in cui il sesso occasionale è un modo per sfuggire alla propria classe. [Ride]
BLVR: Hai qualche consiglio per chi volesse avventurarsi in quel mondo?
CK: In un’attività che nel caso peggiore è eticamente neutra, e che può finanziare altre attività? Penso che ci siano opportunità di impresa ovunque, sempre. Credo sia fondamentale guardare al di fuori dei luoghi più rinomati di entrambe le coste. Guardare ad altre parti del paese. Se dovessi ricominciare a occuparmene, probabilmente visiterei Detroit. L’idea che è venuta fuori nell’ultimo paio d’anni, poter comprare vecchie case quasi gratis per poi rimetterle a nuovo, è molto intrigante. Ma gli Stati Uniti sono pieni di città e periferie agonizzanti. Penso ci siano così tante opportunità, se hai voglia di correre il rischio. Molla il tuo percorso di carriera per due o tre anni e prova a fare qualcosa di completamente diverso.
BLVR: È una cosa che consiglieresti a tutti i giovani artisti?
CK: Assolutamente sì! Fate qualcos’altro. Perché quello che succederà nei prossimi cinque anni, se restate nella vostra nicchia, è già circoscritto e prevedibile, mentre quello che potrebbe succedere se la lasciate e fate qualcos’altro è ignoto, quindi più grande. Esperienze come queste, e le persone che incontrerete, vi formeranno per il futuro in una quantità incredibile di modi diversi. I giovani negli Stati Uniti non viaggiano. Liceo, università, dottorato, e poi lavorare per ripagare i prestiti? È una prigione.
*
Sheila Heti è redattore capo per le interviste di The Believer. Il suo nuovo libro, La persona ideale, come dovrebbe essere?, è uscito in Italia nel 2013.
Titolo originale Chris Kraus @ Sheila Heti, Chris Kraus, 2013, all rights reserved
Traduzione di Umberto Manuini