Hai scritto della morte di tuo padre, a cui eri legatissima. E poi hai scritto dell’uomo che ti ha molestato quando eri bambina: il marito della tua baby-sitter. Due uomini che in modi diametralmente opposti hanno segnato la tua vita, uno nel bene, l’altro nel male. E allora vorrei chiederti come viene cambiata la nostra vita dal bene, e come viene cambiata dal male. Se ti sei mai chiesta che persona saresti se non avessi avuto il padre che hai avuto, e che persona saresti se non avessi incontrato il tuo pedofilo.
La vita di ognuno, ovviamente, può subire degli stravolgimenti a causa di eventi esterni, ma ci resta la nostra identità. Possiamo decidere che tipo di persona essere. Non dico che sia facile, ma io ci credo e spero di dimostrarlo con i miei libri.
A un certo punto scrivi: “Ho pensato spesso alla parola gioia, al fatto che sia impossibile separare la gioia dal movimento”. Ci spieghi meglio? E ci racconti quali sono gli ultimi movimenti che ti hanno portato gioia?
Spesso la parola “gioia” viene utilizzata in riferimento al ballo, un’attività pervasa di un’energia contagiosa: percepire la gioia significa vivere quel tipo di energia.
Vado tutti i giorni in giro per New York, e il semplice fatto di camminare sui marciapiedi, percorrere i tunnel della metropolitana, arrivare alla macchina – muovermi, insomma – mi dà piacere, mi diverte. È un po’ come praticare parkour a bassi livelli, soprattutto nelle ore di punta.
La cosa più particolare di questi due saggi è, a mio parere, il modo in cui sono scritti: con una scrittura scanzonata, quasi stralunata. Scrivi di cose che in certi casi sono terribili (come le molestie), o molto dolorose (come la morte di tuo papà) o molto intense (come il desiderio di rimanere incinta e l’avventura della fecondazione assistita) e lo fai in un modo speciale: sembra di leggere un folletto che si guarda da fuori. Quanto hai lavorato, per ottenere questo effetto? Come ci sei arrivata?
Uno dei motivi per cui amo scrivere è che mi consente di entrare in comunicazione profonda con le persone. Scrivendo entro nella loro testa, nella loro coscienza, come una droga. E a loro volta i lettori, leggendomi in solitudine, entrano nella mia.
Mi piace la scrittura quando rende possibile qualcosa che altrimenti non lo sarebbe, quando comunica in un modo tutto suo, senza dare per scontato, diciamo, che lettore e scrittore siano sulla stessa lunghezza d’onda. Quindi hai ragione, sì, ho scelto deliberatamente di mostrarvi la vicenda dalla prospettiva di un folletto ubriaco, perché era la più adatta alla mia esperienza di dolore e perdita.
In che modo diventare madre ti ha cambiato, come scrittrice? E innamorarti di Frank?
Per me scrivere non è qualcosa di separato dalla vita di tutti i giorni. Ho scelto di sposarmi e di diventare madre, due esperienze che considero rilevanti e significative anche per la mia attività di scrittrice, che scelga o meno di parlarne nei miei libri.
Non sono una persona religiosa, ma essere madre per me è un esercizio spirituale perché ti fa pensare e agire al di là di te stessa. Questo è l’aspetto che amo di più, questa spinta verso l’esterno, anche se non è facile assecondarla. In generale direi che le difficoltà legate al matrimonio e alla maternità mi hanno aiutato a diventare una scrittrice migliore.
Abiti a New York. Ci racconti il tuo legame con la città?
Mi sono trasferita a New York solo dopo il college, ma ormai sono qui da più di vent’anni. È casa mia, e la adoro. Non mi considero newyorchese, ma forse è proprio questo a rendermi parte integrante della città. Provo ancora meraviglia, talvolta, come una turista. New York è assurda, chiassosa, impossibile, bellissima, malinconica, pericolosa – un luogo terribile e al contempo favoloso in cui crescere dei figli. Sono felice di vivere qui e non mi trasferirei in nessun altro posto, tranne forse d’inverno, quando la California comincia a esercitare un certo fascino…
Intervista a cura di Francesca Pellas