Questo articolo è apparso originariamente su Hobart il 23 maggio 2019
Mia madre ha ucciso suo fratello il giorno del mio trentatreesimo compleanno. La data non ha niente a che vedere col delitto. È solo che è andata così. Stavo aprendo i regali di mio marito, Tom. Avevo legato ai capelli un nastro rosso preso nel mucchio di carta. Lui mi ha passato il telefono. Ho ascoltato per un po’ mio padre parlare. Ho detto Sì e Capisco e OK e poi ho riattaccato. Tom mi ha guardato slegare il nastro. Mi ha guardato sedermi a gambe incrociate davanti al camino acceso e andare sempre più giù dentro me stessa, indietro, fino all’angolo più remoto del mio essere.
Amore, ha detto. Cos’è successo?
Ma io non parlavo. Me n’ero andata. Ero brava ad andarmene. I dottori lo consideravano un disturbo, io invece un talento. È passata un’ora prima che riuscissi a parlare e dire a Tom quello che mi aveva riferito mio padre, poi siamo andati a letto e non ci siamo alzati prima dell’una, il giorno dopo.
Il crimine di una madre diventa il crimine di sua figlia. La figlia prende il sottile strato di sangue e la lista delle accuse, e li indossa come uno scialle attorno alle spalle nude. Dal momento che sono figlia unica, tutto mi è arrivato concentrato e in purezza. Una cosa che mi ha fatto sentire davvero viva prima di farmi sentire in procinto di incontrare Gesù Cristo.
Per una settimana non ho pronunciato il suo nome. La tv è rimasta spenta. Il computer, freddo e vuoto nell’ufficio al piano terra. Ho cambiato disposizione ai mobili, messo il tavolo da pranzo in camera da letto. La credenza in cucina. Cantavo nei corridoi e sentivo il cuore martellarmi nel petto quando provavo a dormire.
E poi Tom ha acceso la tv. Mi sono divisa. Cucinava lui tutti i pasti una volta tornato a casa dall’ufficio, durante le pause pranzo. Io mi limitavo a succhiare il sale dai grissini, lavavo i piatti. Erano le uniche cose che riuscivo a fare.
Mia madre e le cose che ha fatto.
Ha investito il fratello nel vialetto di casa di lui.
Ha lavorato in un diner su Main Street, a Portsville. Mi ha fatto le trecce fino ai tredici anni. Mangiava cioccolata nel sonno. È passata in retromarcia sul suo corpo. Mi cantava Tanti auguri ogni anno in spagnolo, francese e tedesco. Mi portava dei libri dalla biblioteca quando da bambina ero bloccata a letto malata. Una volta ha alzato la mano per darmi uno schiaffo, ma poi l’ha riabbassata. Passava i sabati a lavorare nell’orto comunale. Faceva volontariato insegnando catechismo. Indossava magliette di Topolino. E non ha parlato di suo fratello per un anno. Poi ne ha parlato in continuazione per cinque. Diceva di averlo amato. Diceva di averlo temuto. Diceva che una volta l’aveva soffocata. Un’altra, le aveva dato un calcio. L’aveva colpita troppe volte per tenerne il conto.
E la cosa che non capiva, quella che proprio le sfuggiva, era perché a ogni aggressione lui vestisse di rosso. La crudeltà la capiva, in un certo senso. Ce l’avevano nel sangue. Ma quando lui andava a trovarla, una rapida occhiata ai suoi vestiti le diceva se aprire o no la porta. O almeno, era quello che succedeva prima. Perché ormai era morto. E in qualche seminterrato un agente di polizia aveva raccolto da terra un cardigan rosso mettendolo in una busta, per il processo.
Me lo sarei dovuto aspettare. Penso che una parte di me lo sapesse. Forse volevo dimostrare a me stessa chi era davvero mia madre. Le sue espressioni mi confondevano. Mostro e Santa. Santa e Mostro.
Per la visita ho indossato il mio abito rosso. Un vestito scollato con un delicato ricamo di perline, come un abito da sposa color ciliegia. Era crudele da parte mia, ma in caso avrei detto di non averlo fatto apposta. Era stato un incidente. Una coincidenza. E non importa se non l’avevo mai indossato. Non importa se me l’ero tolto e rimesso e tolto e rimesso prima di uscire.
Non importa se Tom aveva detto, Ne sei sicura?, guardandomi dall’alto in basso.
Sicura di cosa?, avevo risposto.
Be’, aveva detto, con un cenno della testa verso il mio petto. Pensavo si riferisse alla scollatura.
Avevo indossato un cardigan rosso ed ero uscita.
Da bambina, il dottor Dern mi aveva chiesto dove andavo durante le mie dissociazioni. Nella mia mente divisa c’erano molte stanze, ma non capivo come potessero essere affari suoi. Voleva sapere da cosa stavo scappando. Avevo detto che non stavo scappando da niente e lui aveva risposto che stavo evitando la domanda. Avevo detto che non era così. Mi stavo tenendo al sicuro, e lui aveva osservato, Sì, sei proprio una ragazzina in gamba.
Le ragazzine in gamba non tentano il diavolo. Ero un bersaglio, una macchia di Rorschach insanguinata, entrata nella prigione sventolando la sua muleta.
Quando avevo dieci anni, ho guardato uno scoiattolo provocare un gatto randagio. La bestiolina agitava la coda e correva in cerchio attorno alla metà inferiore di un albero, squittendo come se avesse qualcosa da dire. E il gatto, con le orecchie all’indietro, aveva fatto un unico balzo tirandolo giù. Che spreco, avevo pensato.
La guardia carceraria mi aveva detto di non credere che mia madre fosse davvero pericolosa. Per questo motivo non era attento quando si è lanciata.
Era il suo accento del Sud?, gli avevo chiesto anni dopo, incontrandolo al supermercato.
Si era dondolato sui piedi, rimettendo a posto un melone. Sì, credo che in parte fosse quello, aveva risposto. E il suo sorriso un po’ storto.
Non sei il primo, avevo detto.
La cicatrice è di quelle belle, ce l’ho proprio in mezzo alla fronte. Non sono state le sue mani a farmela, ma lo spigolo del tavolo su cui mi ha sbattuto la testa. La verità è che ha l’aria di una consacrazione, come se mi avesse toccato la fronte concedendomi la vita eterna. Come se il bordo del tavolo mi avesse conferito la benedizione dell’immortalità. C’era tutto quel rosso.
Adesso vivo nella parte anteriore del mio cervello. Ripiegata su me stessa, col sangue che mi colava lungo il petto, sul pavimento piastrellato, avevo capito che non c’era delitto peggiore di quella benedizione. Due uomini le tenevano le braccia per impedirle di colpire una seconda volta. Da qui in poi, tutto è sacro.
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Lauren Davis è autrice di Each Wild Thing’s Consent (Poetry Wolf Press). Ha conseguito un master in scrittura creativa al Bennington College e le sue poesie e i suoi racconti sono apparse su Prairie Schooner, Spillway, Empty Mirror e Lunch Ticket. Davis insegna al Writers’ Workshoppe a Port Townsend, nello Stato di Washington, e lavora come editor per The Tishman Review.
Traduzione di Francesco Cristaudo