Questo racconto è apparso originariamente su Hobart il 1 marzo 2018
Parlavamo di un sacco di cose quando eravamo fatti. E parlavamo di un sacco di cose anche quando eravamo sobri.
Una volta Mary mi disse che voleva un figlio da me. Be’, insomma non lo disse proprio così, parola per parola. Disse qualcosa del tipo,
Pensavo di volerlo ma non ne ero sicura perché non sapevo di chi fosse. E poi mi sono detta quando tornerò a casa faremo un figlio noi due.
Ma non ricordo di preciso. Mary era in prigione all’epoca. Quando eravamo al telefono ogni 15 minuti una voce ci interrompeva per chiedermi se fossi disposto ad accettare l’addebito. Mary mi diceva un sacco di cose in quei segmenti di 15 minuti. Eravamo sobri tutti e due all’epoca. Poi la rilasciarono e così riprendemmo le nostre vite tali e quali a prima, mai un momento di noia. Poco tempo dopo fu il mio turno. Violai la libertà vigilata e mi beccai un anno. Mary non accettò mai l’addebito delle mie chiamate, nemmeno una volta.
Non so di preciso quando morì. Una sera dopo il lavoro mia moglie e io eravamo sul divano a bere vino. Sul pavimento il nostro carlino, convinto di essere un gatto, ci strusciava sulle gambe. Una collega di Shannon aveva postato su Facebook un meme sulle difficoltà della vita da single, e noi cominciammo a parlare di quelli con cui eravamo stati, a ridere delle cose che in un’altra vita eravamo stati capaci di sopportare.
Shannon cercò il profilo del suo ex marito, le parve incredibile che lavorasse ancora nello stesso negozio di biciclette di quando avevano cominciato a uscire insieme.
A quanto pare certe cose non cambiano mai, disse.
Io cercai il profilo di Mary e trovai la pagina commemorativa. Overdose, tre anni prima. Vecchi nomi che avevo quasi dimenticato, post di condoglianze da parte di gente che ci aveva incoraggiato a fare quello che facevamo un tempo.
Shannon mi chiese come mi sentivo. Ci pensai su, in attesa di una qualche emozione. Poi risposi che Mary era stata una stupida. Mia moglie disse che non riusciva a immaginarmi drogato.
Nemmeno io, dissi.
Un pomeriggio Shannon mi mandò un messaggio per chiedermi di passare all’alimentari prima di tornare a casa. Aveva bisogno del miele crudo da mettere nel tè, non quello nella confezione di plastica a forma di orso. E, a proposito, eravamo a corto anche di cibo per cani e carta igienica.
Feci una deviazione di qualche isolato e passai accanto alla casa in cui avevo vissuto. Una grande bifamiliare che da quando me n’ero andato avevano venduto e ristrutturato, il giardino era libero dalle erbacce, la vecchia vernice azzurra era stata raschiata via, il vialetto era asfaltato e non più ricoperto di ghiaia. Una delle proprietà dei genitori di Mary, le case che davano in affitto. Noi potevamo starci gratis.
Fermai la macchina sul ciglio della strada e guardai la finestra del primo piano, ripensando a tutte le notti che avevamo trascorso lì a passarci il metallo bollente. A quando tutto aveva senso, tutto sembrava giusto. A quando non avevamo più niente da vendere, allora scendevo nel seminterrato e restavo ad aspettare il rumore della porta che si chiudeva e non volevo sentire nient’altro, non volevo avere voglia ma ce l’avevo, pur non volendo. A quella volta in cui la polizia era venuta a prendermi con un mandato.
Mary diceva sempre tante cose quando stavamo insieme. Mi ricordo che una notte mentre ci facevamo come matti mi disse che qualunque cosa fosse accaduta non mi avrebbe mai dimenticato, non avrebbe dimenticato il tempo trascorso insieme.
Ma adesso era morta e non aveva più niente da ricordare. Tolsi il piede dal pedale del freno e ripartii. Cibo per cani, carta igienica. C’era anche un’altra cosa, ma per un attimo non riuscii proprio a ricordarmela. Poi mi venne in mente.
Miele, dissi ad alta voce.
Miele crudo.
Che stupidaggine.
*
Daniel LeSaint vive a Cincinnati, Ohio. Ha studiato geologia alla University of Cincinnati ma si è ritrovato con una laurea in psicologia. Adora bere espresso e fantasticare di dinosauri in viaggio tra le pieghe del tempo.
Titolo originale: Raw Honey @ Daniel LeSaint, all rights reserved
Fotografia @ Mariateresa Pazienza
Traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini