Questo articolo è apparso originariamente su Hobart il 16 ottobre 2018

 

Da quando si erano trasferiti a Orangeville, Trudy si era resa conto di non riuscire più a distinguere Kevin dagli altri uomini. O meglio, non riusciva a distinguerlo da altri uomini di mezza età, più o meno della stessa altezza e costituzione. Era anche una questione di vestiti, chiaramente. Era lo stile che faceva la differenza, il tipo di uomo. Questo era il problema. Kevin era un insieme di caratteristiche astratte: capelli sale e pepe; figura longilinea; camicie ben stirate; pantaloni color cachi-marroncino-verde oliva; scarpe ricercate; occhiali costosi quel tanto che basta a conferire un’aria compiaciuta.
Trudy vedeva altri uomini con tratti simili nelle corsie del supermercato piene di cibi biologici, nelle enoteche e nei caffè, anche se, a dire il vero, non era solo l’aspetto fisico a disorientarla. C’erano alcuni uomini a lavoro, due o tre, forse quattro, che come Kevin davano sempre suggerimenti garbati sulla pronuncia esatta, cercavano di mantenere il discorso sui binari giusti, avvicinavano le sopracciglia ascoltandoti parlare, a lasciare intendere che stavano attenti.

Le prime volte che le era successo – cioè, le prime volte in cui era rimasta sorpresa nel vedere Kevin in luoghi dove non avrebbe dovuto essere, e ancor più sorpresa quando poi realizzava che non si trattava affatto di lui ma di uno dei suoi sosia – aveva provato una certa angoscia. Palpitazioni, sudorazione eccetera. Ma gli scambi di identità diventarono così frequenti che presto smisero del tutto di turbarla. Via via che Kevin si faceva degli amici a Orangeville, i sosia iniziarono a comparire sia in casa che fuori. Rientrava nel tardo pomeriggio e ne trovava un paio a chiacchierare in cucina, a bere birra d’importazione in veranda, o a suonare il banjo in garage. Entravano e uscivano dalla sua vita come banchi di pesci. Quando ne incontrava un gruppo, si assicurava di fare un sorriso grande abbastanza da includerli tutti, uno sguardo talmente esteso che non importava su chi di loro si posasse.

I ragazzi non sembravano essersi accorti di questo moltiplicarsi di Kevin. Anche se a dire il vero, fatta eccezione per lo sdegno di fronte ai rari episodi di ingiustizia domestica, sembrava non si accorgessero di nulla. Trudy era convinta che non si fossero nemmeno resi conto di essere stati trasferiti dall’altra parte del Paese e di frequentare una nuova scuola. Andavano avanti come avevano sempre fatto, interagendo con lei e Kevin con la solita sicurezza. Adorava il loro colorito acceso, i denti bianchi, gli occhi brillanti e il loro appetito impressionante, ma mano a mano che crescevano per lei erano diventati sempre meno interessanti. Li amava, certo, si preoccupava per loro, ma non con la stessa intensità ardente di quando erano piccoli. Da quando erano nati, li aveva immaginati morti ammazzati migliaia di volte in mille modi diversi e questo l’aveva sfinita. Per anni era andata nel panico quando non riusciva a vederli, quando perdeva traccia dei loro corpi. A Orangeville, però, era arrivata a un punto in cui, fintanto che era certa che fossero al sicuro e felici abbastanza, poteva tranquillamente fare a meno di loro. Non aveva più bisogno di sentire se erano caldi, di vedere il movimento ritmico dei loro respiri. La consapevolezza, o almeno la convinzione, che stessero bene senza di lei bastava a renderla felice.

Nessuna delle altre mogli sembrava rendersi conto di quello che stava succedendo ai mariti. La sua collega, Lucinda, era sposata con uno dei sosia di Kevin e andavano a trovarli spesso con il loro bambino, che aveva l’età del figlio più piccolo di Kevin e Trudy. I ragazzi andavano al piano di sopra o nel seminterrato a fare le loro cose da ragazzi. Gli uomini si occupavano del barbecue e le donne stavano sedute in cucina a parlare bevendo un bicchiere di vino.

Durante una di quelle sere Lucinda si lamentò del custode responsabile del loro piano al lavoro.
«Fissa le ragazze» disse. «Quelle più giovani».
«Sì?»
«Sicuro» continuò. «E secondo me si masturba nel suo ufficio».
«Ha un ufficio?»
«Sì, in fondo al corridoio, tra i bagni».
«Pensavo fosse solo un ripostiglio per le sue cose».
«È un ufficio» disse Lucinda. «Ha una scrivania. E una sedia».
Fuori i due uomini stavano con le teste chine sui petti di manzo.
Lucinda continuò, dopo una lunga pausa: «Ha un ufficio e penso si masturbi lì dentro».
«Davvero?»
«Chiude sempre la porta. Dovrebbe stare aperta. Non ci dovrebbe essere bisogno di bussare come se fosse un appartamento privato».
«No?»
«No. Non dovrebbe. Venerdì scorso qualcuno ha rovesciato il caffè sulla moquette in sala professori e lo avevo appena visto nel corridoio che guardava il seno alle ragazze. Allora sono andata decisa verso di lui, ma era già sgattaiolato nel suo ufficio e aveva chiuso la porta. Sono rimasta a bussare un’eternità finché non ha aperto, tutto rosso e sudato con la camicia fuori dai pantaloni».
«Faceva caldo. E lo sai che il preside si rifiuta di accendere l’aria condizionata».
«Puzzava di sperma stantio».
«Capisco» disse Trudy.

Poche settimane dopo, Trudy e Lucinda erano sedute sulle gradinate del centro sportivo a guardare i loro figli giocare a calcio. Era la prima partita dell’anno e i ragazzi correvano su e giù in blocchi indisciplinati, inseguendo la palla per tutto il campo. Davanti a loro era seduta una ragazza con un neonato. Il bambino fissava Trudy appoggiato sulla spalla della madre, gli occhi blu leggermente strabici, il mento grasso lucido di saliva. Non era sicura che potesse distinguere la sua faccia da quella distanza, o riconoscerla come una faccia, in ogni caso. Quando i suoi figli avevano quell’età era convinta fossero dei sociopatici indifferenti, che la composizione dei suoi lineamenti non significasse nulla per loro. Qualsiasi genere di occhi, naso o sorriso sarebbe andata bene, a patto che venissero nutriti.
«È qui» esclamò Lucinda.
«Chi?» Trudy si guardò intorno.
«Là,» disse Lucinda facendo un cenno con il naso «oltre il campo, nel parcheggio».
C’era un uomo in piedi davanti ad un pick-up che guardava la partita. Jeans, maglietta e cappellino sbiadito. Aveva circa cinquant’anni.
«Chi è?»
«Il custode che si masturba» esclamò Lucinda.
«È lui?»
«Sicuro».
«Ha dei nipoti,» disse Trudy «uno di loro starà giocando».
«Vado a reclamare» disse Lucinda.
«Perché guarda la partita?»
«No,» rise Lucinda «alle risorse umane, perché fissa le ragazze, chiude la porta, e per quell’altra cosa».
«Ah» fece Trudy, e Lucinda balzò in piedi esultando. I ragazzi giravano in tondo davanti a una delle porte. I blu si stringevano in una specie di abbraccio, ridevano e si davano il cinque; i rossi erano sparpagliati, con lo sguardo a terra, a riallacciarsi le scarpe. L’arbitro recuperò la palla dalla rete.
«Chi ha segnato?» chiese Trudy.
«Non lo so» disse Lucinda. «Non ho visto».
La ragazza si voltò verso Trudy e sorrise.
«Penso sia stato il tuo» disse.
«Davvero?» disse Trudy.
Il neonato la fissava.

Era buio e Kevin russava. Quando Trudy fu certa che non si sarebbe più riaddormentata andò nello studio. Sistemò una pila di compiti da correggere sulla scrivania in ordine alfabetico, prese un libro a caso dallo scaffale, lo sfogliò velocemente e lo rimise a posto. Ascoltò il verso delle rane in giardino. Non riusciva a dare un nome alla sensazione che provava: non era noia, né depressione, né malinconia, né insoddisfazione. Forse non c’era una parola per definirla. Andò in cucina. Qualcuno aveva lasciato fuori il latte. Lo rimise in frigo. L’orologio del microonde segnava le 4.53. La sveglia avrebbe suonato alle sei. Si infilò le scarpe da ginnastica di Kevin e afferrò il suo giubbino. Un fila di preservativi cadde da una tasca, li raccolse. Uno era stato aperto. L’interno argentato era ancora unto di lubrificante. Trudy lo toccò e sentì l’odore di lattice sulle dita. Si immaginò tutti i sosia che si dibattevano insieme su banchi di sabbia e spiagge di ghiaia, nudi ed esausti, con lo sguardo perso verso il cielo. Rimise i preservativi in tasca e si strinse nella giacca.

Uscì sul porticato. Stava facendo giorno e gli uccelli iniziavano a cantare. Si sedette a gambe accavallate, con i lacci che pendevano sulla caviglia nuda. Le rane stavano facendo ancora più rumore. Presto il sole sarebbe spuntato sui tetti. Presto Kevin si sarebbe svegliato, e anche i ragazzi. Avrebbero fatto la doccia e poi colazione, sarebbero andati a scuola o al lavoro, o dovunque passassero le loro giornate. Lo stesso avrebbe fatto lei. Pensò a Kevin e agli uomini cui somigliava, pensò a quanto fossero interscambiabili, ai bambini nei passeggini o sugli scuolabus o a giocare nei parchi. Pensò a con quanta facilità potessero essere scambiati gli uni per gli altri. Cercò di ricordare qualcosa di cui avere nostalgia, qualcosa di interessante che le era successo in passato, ma non ci riuscì.

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William Squirrell è originario del Canada e vive in Pennsylvania. I suoi scritti sono apparsi in Monkeybicycle, Sundog Lit, decomP magazinE e altri. È inoltre editor di Big Echo: Critical SF all’indirizzo www.bigecho.org. Per maggiori informazioni visitate il suo sito www.blindsquirrell.com e il suo profilo Twitter @billsquirrell.

Titolo originale, Orangeville, copyright @ William Squirrell, all rights reserved
Traduzione di Agnese Capaccioli.