IN CUI SI PARLA DI: donne senza spina dorsale, Dylan e il suo magnetismo enigmatico, morte dell’ego, fidanzate e mogli come eroine delle favole, David Bowie e il suo vero direttore artistico, minaccia di annullamento, Soho, fantasmi, occhi da angelo del Botticelli, droghe varie, catarsi del lettore.
Ferite, reali e metaforiche, delle donne del rock: da note a piè di pagina a protagoniste della loro storia.
Questo pezzo è apparso originariamente su The Believer, numero musicale, luglio-agosto 2014.
Il 7 aprile 1963, poco dopo l’uscita di Please Please Me dei Beatles, Cynthia Lennon fu ricoverata nel reparto maternità del Sefton General Hospital di Liverpool. Aveva vissuto una gravidanza solitaria: John non era stato molto presente e, dopo essersi sentita dire che la sua presenza avrebbe potuto danneggiare la band, Cynthia si era rinchiusa a casa a «sferruzzare scarpine di lana» per il futuro Julian Lennon. All’epoca gli uomini non venivano granché coinvolti in gravidanze e parti. Mentre Cynthia entrava nel suo secondo giorno di travaglio, i Beatles si esibivano a Portsmouth e la donna nel letto accanto al suo gridava chiamando la madre.
Julian nacque il mattino seguente. Quando John si degnò di farsi vivo, diversi giorni più tardi – «Cyn, che spettacolo di bambino!» – fece spostare Cynthia e il piccolo in una stanza privata, che tuttavia aveva un finestrone che dava sul corridoio da dove orde di curiosi si affacciavano per sbirciare dentro. «Mi sembrava di essere in un acquario ed era ovvio che John non potesse restare a lungo» scrisse Cynthia nel suo secondo memoir intitolato John. «Mi ha abbracciato e, andandosene, ha firmato qualche dozzina di autografi».
John e Cynthia si erano follemente innamorati quando studiavano al Liverpool College of Art, dove lui era un teppistello dalla lingua lunga e lei una ragazzina pudica e timida che sognava una vita tranquilla come insegnante d’arte. Cynthia si decolorava i capelli come il suo idolo Brigitte Bardot e John le scriveva lettere accorate («I love you like GUITARS»). Lei era entusiasta di poter assistere all’ascesa dei Beatles, ma più il gruppo diventavano famoso, meno riusciva a vedere il suo uomo.
Durante gli anni della Swinging London Cynthia si sentiva «una ragazza ingenua che aveva avuto un colpo di fortuna e non meritava di trovarsi lì». Sperava che un giorno John sarebbe tornato a condurre una vita più normale, ma quando i Beatles smisero di andare in tour lui diventò subito inquieto e tramite l’lsd cominciò a trovarsi a suo agio in dimensioni cui lei non aveva accesso. La meditazione avrebbe potuto, potenzialmente, legarli, ma quando nel 1967 i Beatles decisero di andare in ritiro spirituale a Bangor, in Galles, Cynthia arrivò in ritardo e perse il treno. Rimase in lacrime sul binario della stazione, tra i flash dei numerosi fotografi presenti. «Presi quell’episodio a simbolo di ciò che stava accadendo al mio matrimonio» scrisse. «John era sul treno, lanciato a tutta velocità verso il futuro, e io ero rimasta lì. Lo guardavo svanire in lontananza ed ero sicura che il senso di solitudine che mi stava assalendo su quel binario, un giorno, sarebbe diventato una condizione permanente».
John aveva già conosciuto Yoko Ono, dalla quale Cynthia si era sentita più turbata che minacciata. Nella primavera del 1968, tuttavia, tornò da una vacanza in Grecia e trovò l’artista sdraiata nella veranda di casa sua con indosso, scrive, la sua vestaglia. Nel giro di un mese la nuova coppia uscì allo scoperto e Cynthia fu tagliata fuori dalla vita di John «come un arto in cancrena – un’amputazione totale da tutto ciò che ero stata».
«Che John sarebbe finito tra le braccia di una persona come Yoko era sempre stato ovvio a tutti» scrive Michael Faber in una feroce recensione di John apparsa sul Guardian. «Eppure, ancora oggi, Cynthia si aggrappa ai ricordi felici… Raccontando delle piacevoli serate in cui la famiglia “si stringeva intorno alla televisione”, inconsapevolmente non fa che confermare quella che John ricorda come “una felice unione fondata sulla noia”». Cynthia era un albatro e il mondo soffriva attraverso di lei.
«La verità è che se da adolescente avessi saputo a cosa mi avrebbe condotto innamorarmi di John Lennon,» si legge alla fine di John «avrei girato i tacchi all’istante e me ne sarei andata». Dopo il dolore provato per la perdita improvvisa, e pubblica, del marito, Cynthia non fu mai più padrona della sua vita. La sua stessa esistenza era stata definita da quel primo matrimonio – il mondo l’aveva etichettata senza cercare neppure prendersi il disturbo di capire chi fosse. Per tutti era una donna fragile, con la spina dorsale più molle di un tubo da giardino, e il suo ruolo nella storia era rimasto congelato nell’istante in cui le si era spezzato il cuore.
I mariti che ebbe in seguito vedevano in lei il suo famoso ex, e in periodi di necessità – l’accordo di divorzio che ottenne da John fu insoddisfacente considerato il patrimonio di lui, e aveva un figlio che a sua volta non riceveva un granché dal padre, a livello finanziario e non – dovette ridursi a sfruttare il cognome che portava per ottenere qualcosa. «Pensate che mi avrebbero fatto firmare un contratto di tre anni come stilista, se mi fossi chiamata solo Powell?» disse a un lettore dell’Independent durante una conferenza stampa. «Certo che no. Quando si tratta di guadagnarsi da vivere è necessario ingoiare qualche rospo».
La voce narrante di John è dimessa e profondamente empatica – «il genere di donna con cui si chiacchiererebbe volentieri in coda alla cassa del supermercato» dice Caro Handley, co-autrice del libro «e che si saluterebbe pensando, “Ah, che brava persona”». Certo, l’eredità lasciata da John e Yoko è molto più affascinante, ma sebbene la storia l’abbia resa l’anti-Yoko, in John Cynthia riesce a trovare del buono nella sua esperienza. «Cynthia, una brava persona senza immaginazione,» scrive Faber nella sua recensione sul Guardian «non possiede gli strumenti per analizzare a fondo l’uomo che ha scritto Imagine». Ma a Faber sfugge un punto fondamentale: John non è soltanto un libro su John Lennon; è la biografia di una donna che è stata sposata con lui.
Le rock star sono gli dei dell’ultimo secolo, gli avatar dei desideri e delle manie dei giovani degli anni Sessanta, che non avevano nient’altro su cui riversarli. Il magnetismo enigmatico di Bob Dylan lo trasformava nell’Uomo che Tutto Sa; i fianchi ondeggianti di Mick Jagger erano l’epitome di una libertà personale e sessuale. «Mick Jagger personificava il pene» scrive Pamela Des Barres, famigerata groupie e autrice di numerosi libri, nella sua autobiografia del 1987, Sto con la band: confessioni di una groupie. Da adolescente ogni giorno scappava da scuola «per ascoltare Mick cantare, “I’m a king bee, baby, let me come inside”».
Arrivare in prossimità di una rock star all’epoca – per una notte, per un tour o per il tempo che gli ci voleva a comporre un album appositamente per te – sembrava quasi un servizio reso alla comunità. «Forse, stringendo tra le braccia i loro idoli, le groupie credevano di diventare a loro volta delle divinità» scrive la Des Barres in Stanotte stiamo insieme, pubblicato nel 2007. Purtroppo le rock star non sono divinità, ma esseri umani le cui emozioni per qualche motivo trovano corrispondenza nell’animo di molti, emozioni ispirate da altri esseri umani – alcuni dei quali scrivono biografie. Libri del genere vengono spesso bollati come tentativi da parte degli autori di battere cassa, ma pur essendo a volte frutto di risentimento, raramente risultano cinici. Nel complesso rappresentano l’altra faccia della storia del rock classico, raccontata dall’interno e allo stesso tempo dai margini del viaggio eroico delle star.
In molti casi descrivono un’esperienza che, più che a un processo di beatificazione, somiglia a una lenta, estenuante morte dell’ego. È «il destino crudele e bizzarro della fidanzata di una pop star» osserva Marianne Faithfull in Faithfull (1994), scritto con David Dalton. «Da una parte vieni elevata all’invidiabile ruolo di Consorte dell’Idolo. Dall’altra la tua vita diventa di proprietà della stampa, del pubblico e della star stessa, che ne fa ciò che desidera. […] Per quanto all’inizio possa sembrare lusinghiero, il processo per cui il tuo dolore diventa materiale per una canzone, che a sua volta diventa un singolo di successo, è snervante. Ma poi ci pensi e dici, Che altro poteva fare, quel povero bastardo?»
La partner della rock star è impotente, ma nota a tutti. Non solo, è anche importante: una parte di lei è contenuta nella musica per la quale i fan vivono. Amare una rock star significa diventare un’invenzione di quella rock star, e di un pubblico ossessionato dalla sua vita. I fan possono amarti per associazione di idee, ma la loro compassione termina laddove iniziano i tuoi problemi.
Tutti i cliché su John Lennon sono veri: meritava di diventare un’icona, al mondo ha fatto più bene che male, e la sua relazione con la Ono, il cui potere era pari al suo, è stata una magnifica opera d’arte. Non dev’essere facile quando tutti ti trattano come un dio: i tuoi difetti risultano mostruosi, un passo falso provoca un terremoto e il mondo intero non aspetta altro che poter mettere le mani sul tuo cestino della carta straccia, frugare nel tritarifiuti, nella fossa biologica. Chiunque può scrivere un libro su di te, ex amanti, ex autisti. Ma ben peggio di avere un così grande ascendente sul prossimo è farsi schiacciare dal suo potere. Le rock star offrono il loro dolore al mondo, ma non esiste dolore più grande che vedersi spezzare il cuore da qualcuno che consideri un dio.
Leggendo John cinquant’anni dopo gli eventi che racconta, si ha la tentazione di schioccare la lingua con aria sprezzante e chiedersi: Perché scoparsi Mick Jagger, quando potevi essere lui? Ma il rock and roll non faceva sconti alle donne, e la versione femminile di Mick Jagger non era neanche lontanamente Mick Jagger. Nella sua biografia Graffi in paradiso: la vita e i tempi di Janis Joplin, Alice Echols descrive un’esistenza tra alti e bassi, brevi attimi di trionfo seguiti da altri di solitudine soverchiante. La relazione più lunga e stabile che la Joplin abbia mai avuto, scrive la Echols, è stata con la proprietaria di una boutique di San Francisco, Peggy Caserta – anche lei autrice di un memoir sulla sua ex, Going Down With Janis – e anche se durò due anni e mezzo si prendevano e mollavano spesso, non si impegnavano. Negli ultimi anni di vita Janis Joplin si fidanzò con un uomo descritto come un «artista della truffa», uno che si portava nel letto di lei altre donne e affermava di considerare la sua musica «mediocre».
La Caserta era molto affezionata a Janis, ma aveva paura di innamorarsene troppo perché Joan Baez aveva spezzato il cuore a una sua amica. Quando alla radio passavano le canzoni di Janis, «era come ricevere una martellata al petto», raccontò alla Echols. «E pensavo, Quando riuscirò a sfuggire alla voce di questa donna? Non voglio rischiare che mi trafigga il cuore e spinga la lama così a fondo che poi non riuscirò più a togliermela».
Janis Joplin diventò un’icona, ma veniva comunque giudicata in quanto donna: il pubblico abbracciò il suo talento, tuttavia non le perdonò mai di averlo sfruttato. Jagger e Lennon, invece, venivano assediati nei backstage da fan adoranti pronti a fare di tutto pur di stare in loro compagnia. Janis si divertiva, ma la Echols ci descrive una scena che lascia intuire il senso di desolazione che spesso provava: dopo il magnifico esordio all’Anderson Theater di New York, Janis rimase sola mentre i membri della sua band, i Big Brother and the Holding Company, se ne andavano a una festa. Finì in un locale dove fu avvicinata da un giornalista; mentre si lamentava con lui dei suoi colleghi, l’uomo fantasticava «di metterla a tacere dicendo: “Forse ti sei dimenticata di avere l’acne”».
L’insensibilità maschile, i sacrifici che derivavano dalla maternità e lo sdegno generale verso l’ambizione femminile rendevano la solitudine il destino più probabile di una cantante donna. Agli occhi di una giovane fan del rock and roll le braccia di un musicista erano molto più accoglienti. Le fidanzate e le mogli apparivano come eroine da favola, personalità influenti nella cerchia dei loro partner. Perfino le groupie – l’«élite delle concubine», per usare un’espressione della Des Barres – vivevano un sogno pre-adolescenziale, soddisfacendo ogni notte le proprie pulsioni ed evitando al contempo i rischi emotivi e fisici di essere sposate con, per dirne uno, Keith Moon.
Per la Des Barres adolescente essere la ragazza di una rock star equivaleva ad aver conquistato la gloria nel mondo del rock: l’ammirazione di milioni di persone, la gratificazione sessuale (motivo per cui molti uomini iniziano a suonare la chitarra, peraltro) e l’opportunità di ispirare grandi capolavori, magari dicendo la propria o limitandosi a sospirare con grazia. Come scrive la Echols, il primo, vero riconoscimento della presenza delle donne nel rock, concesso dalla rivista Rolling Stones, arrivò sotto forma di un numero speciale dedicato alle groupie (nel quale compare proprio la Des Barres). «Sapevo solo che volevo essere qualcuno» scrive Bebe Buell, cantante ed ex fidanzata di rock star (che ispirò in parte il personaggio di Penny Lane in Quasi famosi) nella sua biografia del 2001 Rebel Heart: An America Rock’n’Roll Journey scritta con Victor Bockris. «E quel qualcuno somigliava ad Anita Pallenberg, Pattie Boyd, Marianne Faithfull, Jane Fonda, Brigitte Bardot e Janis Joplin!»
La Buell esordì come modella per Eileen Ford, anche se preferiva fare festa al Max’s Kansas City fino al mattino. «Nutrivo la segreta ambizione di diventare una rock star» scrive, tuttavia non mise insieme una band fino agli anni Ottanta. Nel 1972 si trasferì a casa di Todd Rundgren e «nel 1973 non avevo un lavoro. Ero la fidanzata di Todd Rundgren; era quello il mio cazzo di lavoro e tanti saluti». L’anno seguente posò nuda per il paginone centrale di Playboy, uno scatto che la rese «la ragazza più sessualmente desiderabile del rock‘n’roll», e il suo corpo diventò un premio molto ambito: Mick Jagger, Jimmy Page e Rod Stewart, cavalcando l’onda delle rispettive rivalità professionali, tentarono tutti di sedurla. «Allo stesso tempo quella foto fece finire nel cesso la mia carriera di modella negli Stati Uniti». Non avere un lavoro proprio porta a delle controindicazioni, economiche e non.
Pattie Boyd era una modella, e divenne un personaggio noto nella Swinging London quando recitò in Tutti per uno (1964). Sul set George Harrison le chiese di sposarlo; iniziarono a frequentarsi e due anni dopo convolarono a nozze. Come quella che all’epoca era la fidanzata di Paul McCartney, l’attrice Jane Asher, anche la Boyd teneva in gran conto la propria carriera e la propria indipendenza (trovava difficile rapportarsi con Cynthia, madre a tempo pieno che apprezzava come persona ma che trovava «piuttosto seriosa»). Ma George non approvava che lavorasse – «Era solo una conseguenza dell’educazione che aveva ricevuto» scrive Pattie nella sua autobiografia Wonderful Tonight: George Harrison, Eric Clapton and Me (2007), scritta con Penny Junor – così cominciò a rifiutare ingaggi e portò avanti l’hobby della fotografia. «Quando ho smesso di fare la modella ho perduto una parte importante della mia identità, la sensazione di valere qualcosa, la mia indipendenza e la mia sicurezza».
Quando i Beatles si sciolsero George sembrò allontanarsi da lei, e Pattie si sentiva persa e trascurata nel periodo in cui Eric Clapton dichiarò di amarla e le dedicò Layla – «Mi conquistò così. Capii che ero stata io a ispirare una tale passione, una tale creatività». La sua vita con George «andava avanti ad alcol e cocaina», inframezzata da relazioni extraconiugali; nel 1974 lo lasciò per raggiungere Clapton in tour. Ma l’affetto di lui sembrava capace di manifestarsi soltanto sotto forma di gesti plateali. Con l’intensificarsi della loro relazione, Eric iniziò a bere sempre di più, e lei seguì il suo esempio perché si sentiva inutile (ispirò almeno altre due composizioni del cantautore, tra cui Wonderful Tonight e The Shape You’re In). «Aveva la sua creatività, il suo lavoro, le sue registrazioni, i suoi viaggi, mentre io non avevo nulla. Scattavo fotografie, ma facevo poco altro».
Quando Clapton ebbe un figlio da una delle sue amanti – «Pensavo che il mio cuore fosse sul punto di disintegrarsi» scrive la Boyd, che non era riuscita a concepire – finalmente trovò il coraggio di lasciarlo. Ma dopo venticinque anni trascorsi nei panni della donna di una rock star non era pronta ad affrontare il mondo esterno: non aveva mai pagato una bolletta in vita sua, e dovette reimparare ad andare in metropolitana, dove temeva di essere riconosciuta e a ogni stazione le comparivano davanti enormi poster di Eric. Alle feste, quando degli sconosciuti le chiedevano che cosa facesse per vivere, rispondeva: niente. «Perdendo Eric persi anche il mio ruolo, e se non ero più la signora Clapton, chi ero?»
Per quanto crudo, il memoir di Pattie Boyd è più fine di quello di Angela Bowie, intitolato Backstage Passes: Life on the Wild Side With David Bowie e scritto con Patrick Carr, un libro sconcio, esuberante, pieno di pettegolezzi riferiti con piroette linguistiche. Nella sua opera, Angela riflette amaramente sul suo matrimonio, che afferma di aver considerato alla stregua di un lavoro. All’inizio della loro relazione, quando David era ancora un musicista squattrinato, lei gli propose «un accordo», scrive. «Saremmo rimasti insieme imbarcandoci in un percorso: prima avremmo lavorato per raggiungere il suo obiettivo – farsi idolatrare, diventare una star – e poi avremmo fatto la stessa cosa per me, procurandomi una carriera sia sul palco che sullo schermo. David mi ascoltò e poi disse: “Se ti sta bene che io non sia innamorato di te…”».
Nei primi tempi, stando ai suoi resoconti (e a quelli di altri), Angela gli fece da apripista e direttore creativo non ufficiale, aiutandolo a ispirare e dare forma agli elementi più estremi della sua immagine, oltre che a negoziare accordi e a sbrigare le minuzie della sua routine quotidiana. David divenne una star, ovviamente, e lei si godette i frutti del suo stile di vita (pare che gli abbia fruttato conquiste di ogni sesso), ma la spinta più grande che la sua carriera abbia ricavato da quell’accordo con Bowie fu un provino per il ruolo di Wonder Woman che, a sua insaputa (e di David), era già stato assegnato – una mossa orchestrata dal manager di Bowie per promuovere il suo episodio «1980 Floor Show» della serie televisiva The Midnight Special.
«Angie Bowie era importante quanto David» afferma Pleasant Gehman, scrittrice del mondo del rock, nel suo Let’s Spend the Night Together. «Ispirava canzoni. L’arte di Angie consisteva semplicemente nell’esistere». Purtroppo una carriera nel campo dell’esistenza offre pochissime sicurezze economiche all’indomani di un divorzio, e i capolavori che ispira di solito finiscono per essere accreditati ad altri. «Cominciavo a chiedermi, se io ero Mary Shelley, dov’era il mio Frankenstein?» scrive la Faithfull ricordando i suoi ultimi giorni con Mick. «Provavo disprezzo per le donne che seguivano dappertutto band come i Rolling Stones. Io non facevo proprio niente».
È un vero e proprio lavoro prepararsi per le telecamere, fornire un’immagine che sia la giusta combinazione del contegno, del fascino e dell’irriverenza che si addicono alla moglie di una rock star. Quando lavorava come modella la Boyd veniva pagata per irradiare un ideale del genere, ma i suoi problemi iniziarono quando si ritirò dalle passerelle – quando, cioè, perse i diritti sulla sua stessa immagine. Ironia della sorte, ispirava grandi opere d’arte ma aveva la sensazione di non combinare nulla nella vita. «Aver inspirato Eric, e George [Harrison] prima di lui a scrivere musica del genere è stato un onore» scrive. «Eppure sono arrivata a credere che, sebbene qualcosa in me li abbia spinti a posare la penna sulla carta, fosse tutta una questione che riguardava soltanto loro».
«“Che dobbiamo fare con te?” mi diceva sempre [Albert Grossman]» scrive la Buell. «“Sei una star, ma cosa possiamo farti fare? Sei una star! Ma che cosa sei?”». Tra pagine sdolcinate in cui parla delle sue cotte, la Des Barres scrive sul diario: «Quello che desidero davvero è sentirmi realizzata. Scommetto che gente come i Beatles o Leonard Cohen si sentono realizzati». Anche se registrò un album con le GTO, un gruppo tutto al femminile il cui mentore era Frank Zappa, il tanto agognato tour con Rundgren non arrivò mai.
Alla fine la Des Barres si trasformò in una persona realizzata proprio grazie alla scelta di scrivere la propria storia. L’autobiografia e le tante mostre fotografiche (compresa Through The Eyes of a Muse, composta da foto risalenti agli anni trascorsi a contatto con il mondo del rock e riproposta in tutto il mondo) divennero per Pattie Boyd una professione, e la trasformarono da comparsa in protagonista della storia, un individuo con il proprio valore piuttosto che un episodio romantico nell’esistenza di una qualche rock star.
Nell’aprile del 1965 Marianne Faithfull aveva diciotto anni ed era una cantante pop, con alle spalle un primo singolo di successo. Era anche incinta e fidanzata ufficialmente, ma il suo promesso era fuori città quando «Dio in persona» – ossia Bob Dylan – prese una suite al Savoy di Londra. La Faithfull si unì all’orda di musicisti, giornalisti e curiosi che affollavano la stanza, mentre il «volubile e disorientato oggetto di tante attenzioni» batteva alla macchina da scrivere, incurante di tutto ciò che lo circondava. La Faithfull era troppo nervosa per dire qualcosa, ma dopo qualche giorno, scrive, le giunse voce che Dylan stava componendo una poesia su di lei. All’improvviso si ritrovò elevata al rango di «Prima Potenziale Consorte». La ragazza di Dylan, Sara Lownds – di cui la Faithfull sapeva quanto bastava per provare compassione – si trovava chissà dove.
Una sera tardi, dopo che l’entourage del cantante ebbe sgomberato il campo, Marianne fu ricevuta da Bob Dylan. Lui le suonò il suo ultimo album, interrompendosi dopo ogni brano per chiederle se l’avesse capito, e alla fine ci provò con lei. Sebbene lo trovasse «irresistibile», la Faithfull non gli si concesse. «Era la mia più grande paura, essere tanto presa da una persona da perdere di vista me stessa. Mi terrorizzava l’idea di evaporare a contatto con tanto genio». Bob Dylan, scrive, reagì stracciando i testi delle canzoni e cacciandola dalla suite.
La minaccia costante che grava su tutte queste donne è finire cancellate: la protagonista lotta per rimanere se stessa nel magnifico vortice causato dalla fama del suo amante. La Faithfull ricorda l’emozione e l’orrore provati assistendo a un concerto del suo futuro fidanzato, nel 1966: «Alle prime note di I’m a King Bee, migliaia di adolescenti possedute lanciarono un grido disumano. Si strappavano i capelli, salivano in piedi sulle sedie, con le pupille dilatate, tremando incontrollabilmente… Senza alcuno sforzo Mick penetrava dentro di loro, rompendo ogni barriera». Quando lo incontrò di persona, Jagger le mise molta meno soggezione di Dylan, e Marianne trascorse con lui qualche mese di idillio finché non fu beccata nella tenuta di Redlands di Keith Richards, completamente fatta e con indosso solo un tappeto di pelliccia. Presero a circolare strane voci su una barretta di Mars, e se in quell’occasione la Faithfull si era sentita «una di loro», la stampa la definì semplicemente «la donna… la degenerata… la sgualdrina. Miss X».
La sua impotenza dinanzi all’opinione pubblica tormentava Marianne, così come l’idea errata che il mondo si era fatta di lei, considerandola una donna che stava vivendo il sogno di tutti. Nella sua descrizione Jagger è un ragazzo a posto, ma l’abuso di droghe e la violenza autoinflitta risultano quasi una sorta di vendetta da parte di Marianne contro il suo essere divino: lui era un Rolling Stone, lei la sua ragazza, e nemmeno tutto l’affetto del mondo avrebbe cambiato il fatto che Marianne conducesse uno stile di vita sbagliato. «L’ho lasciato per fedeltà a un ideale romantico» scrive. «Volevo drogarmi più di quanto non volessi stare con lui». Nel 1972 si trasferì in un appartamento di Soho e ne uscì sette anni dopo con il suo personale Frankenstein: l’album Broken English.
All’hotel Savoy la Faithfull immaginava che le ragazze di Dylan fossero «donne che avevano infranto il tabù copulando con il dio e che da quel momento erano state condannate a vagare come fantasmi da un albergo di lusso all’altro: Joan Baez, Suze Rotello [sic]. Zombie del Mistico Bob». La Rotello – Rotolo, in realtà – fu il primo amore di Dylan, la donna che compare sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan. Sopravvisse alla relazione, ma soffrì terribilmente quando il suo uomo divenne Dio in persona.
La Rotolo aveva diciassette anni quando conobbe Dylan a un concerto nella Riverside Church di New York. Era una «ragazzetta» del Queens che si interessava di arte e politica, ed era cresciuta circondata dalla scena folk del Greenwich Village; introdusse Dylan a opere e idee che in seguito sarebbero diventate parte del suo percorso. Quando lasciò New York per andare a studiare in Italia la sua assenza, durata otto mesi, ispirò a Dylan una serie di canzoni d’amore tra cui Tomorrow is a Long Time e Don’t Think Twice, It’s All Right.
All’estero la Rotolo lesse La mia vita con Picasso di Françoise Gilot ed ebbe un’epifania. «Era un libro ricco di rivelazioni, lezioni, avvertimenti» scrive in A Freewheelin’ Time: A Memoir of Greenwich Village in the Sixties. «Le personalità di Picasso e Dylan erano terribilmente simili. Picasso faceva quello che gli pareva, senza preoccuparsi di coloro che lo circondavano né degli effetti che le sue azioni avevano su di loro. Non si prendeva alcuna responsabilità, non metteva in chiaro nulla, non prendeva decisioni e non faceva niente per rendere più facile alle donne con cui si accompagnava il compito di lasciarlo e voltare pagina. Era una calamita e il campo di forza che lo circondava era talmente potente che non si riusciva a distaccarsene».
Suze Rotolo non aveva alcuna voglia di plasmare la sua vita intorno a quella di Bob. Considerava il loro un rapporto paritario, a prescindere dal fatto che nel mondo della musica una donna fosse considerata «una corda della chitarra [del suo uomo]». Ma quando fece ritorno a New York, si rese conto che la sua esistenza era nota e che agli americani non interessava l’astrazione che Bob ne aveva fatto. «Cantavano le canzoni in cui descriveva le sue pene d’amore e le ballate in cui puntava il dito contro un’amante crudele… Era come se ogni lettera che Bob mi aveva scritto, ogni sua telefonata, fosse stata un’esibizione dinanzi a un pubblico».
Rimase sconcertata alla vista della folla che prendeva d’assalto la limousine di Dylan quando fece la sua apparizione alla Carnegie Hall, nell’ottobre del 1963, così come dalla sua licantropesca metamorfosi in profeta. Via via che la loro vita privata diventava di dominio pubblico e la presenza di certe persone che le giravano intorno sempre più sospetta, Suze Rotolo si rese conto che ben presto avrebbe smesso di essere se stessa per diventare La Fidanzata di Bob Dylan. «Un pomeriggio mi trovavo in un bar con un amico, che a un certo punto mi riferì un complimento che qualcuno mi aveva fatto» scrive. «Io scoppiai a ridere e ribattei che la gente faceva la carina con me solo per avvicinarsi a Dylan. Allora lui mi guardò e disse: “Perché? Non puoi piacere a qualcuno semplicemente per quello che sei?”. “Ne dubito fortemente” risposi io».
Nel 1964 la Rotolo ne aveva ormai avuto abbastanza. Dopo una lenta e dolorosa rottura con Dylan, iniziò a lavorare come artista e attivista, si sposò, ebbe un figlio ed evitò di parlare in pubblico del suo ex fino a quando Bob Dylan, nel 2004, non pubblicò la sua biografia. Il libro della Rotolo, A Freewheelin’ Time, uscì invece nel 2008, appena tre anni prima della sua morte. Nell’introduzione descrive Dylan come «una presenza, una vita che procedeva parallela alla mia, a prescindere da chi ero, chi frequentavo o cosa facevo». Potrebbe essere stata una delle ultime persone sul pianeta ad aver visto Bob Dylan quando era ancora un essere umano.
Il suo libro e quello della Faithfull sono opere eccellenti e le star di cui si parla risultano in entrambi i casi meno interessanti dell’autrice. Marianne Faithfull sembra aver vissuto con un’aura mistica e descrive con lucido distacco persino le abiezioni più squallide, come se stesse ripercorrendo le tappe della sua vita sotto forma di fantasma. L’opera della Rotolo più che un resoconto dettagliato è uno sguardo fugace su un periodo e un luogo significativi – l’autrice si pone più come una presenza affettuosa che un personaggio del libro – da cui emerge tutta la sensibilità della donna che, nei primi anni Sessanta, casualmente aveva trovato risonanza in quella di Bob Dylan.
Grace and Danger di John Martyn è un album innovativo: registrato tra crisi di pianto e urla disperate è una torbida, inquietante eulogia del suo decennale matrimonio con Beverley Kutner, di cui era ancora molto innamorato. Si erano conosciuti nel settembre 1968, quando lei aveva ventuno anni ed era una cantante folk con un futuro luminoso davanti: la sua voce ricca e intensa le era valsa il plauso di Paul Simon e Art Garfunkel – che l’anno precedente l’avevano invitata a esibirsi al Festival Internazionale di Musica Pop di Monterrey – e di Joe Boyd, che aveva prodotto alcuni degli artisti più interessanti d’Inghilterra e messo insieme una superba line-up per il suo album di esordio, prodotto dalla Warner Bros.
«È la legge di Murphy» scrive la Kutner nella sua autobiografia del 2011, Sweet Honesty: The Beverley Martyn Story. «Quando le cose iniziano ad andare bene, gli dei inviano un guastafeste cosmico per buttare tutto all’aria». Il guastafeste in questione era John, un cantante scozzese con la faccia da ragazzino, «gli occhi di un angelo del Botticelli» e un vero talento per la chitarra. Si sposarono nell’aprile successivo e, con l’evolversi della loro relazione, aumentò anche il ruolo di lui nella musica di Beverley.
Stavano registrando a Woodstock quando, scrive la Kutner, uno screzio con Bob Dylan dopo un concerto di beneficienza scatenò in John un furioso attacco di gelosia. Le diede una spinta, scrive, e tornati a casa le lanciò una forchetta mirando all’occhio. «Se avessi saputo quello che il destino aveva in serbo per me, quante volte quella scena di violenza seguita dal rimorso si sarebbe ripetuta nel corso degli anni, sarei scappata urlando senza mai voltarmi indietro. Ma del senno di poi son piene le fosse. Quella notte ci fu un terribile temporale. E così nacque Stormbringer!»: in copertina si vedono John e Beverley abbracciati sotto nubi scure e minacciose.
Insieme registrarono un altro disco come duo, The Road to Ruin, ma John – che a detta di Beverley aveva iniziato ad attribuirsi più meriti di quanti non gliene spettassero – decise di andare in tour da solo, avviando la propria carriera di iconoclasta tormentato e lasciando lei a casa con i bambini. Verso la metà degli anni Settanta Beverley aveva ormai abbandonato ogni velleità di carriera mentre John beveva, andava a donne e viaggiava; era arrivata al punto di temere il momento in cui sarebbe tornato a casa. «Col passare degli anni accumulai naso e un timpano rotti, oltre a svariati traumi cranici. Una sera decise di rompermi addosso una sedia e tentando di ripararmi la testa mi procurai gravi danni a un braccio. John non mi fece neppure chiamare il medico, figurarsi andare in ospedale. “Torna a letto” ringhiava “o butto il bambino dalla finestra”».
Nel 1979 Beverley fuggì di casa con gli stivali del figlio maggiore ai piedi e fece l’autostop. John dedicò un album alla fine di quel rapporto e, scrive Beverley, vi incluse molti dei suoi testi e melodie; lei, che ancora aveva difficoltà a lasciarsi alle spalle gli anni di violenze subite e non riusciva a provvedere ai figli senza un aiuto finanziario, cadde in esaurimento nervoso. Quando una rivista femminile pubblicò una recensione positiva dell’album di John, Beverley chiamò in redazione, disperata, per raccontare la propria versione all’editore, che tuttavia le rispose solo con delle banalità. «Non raccontavo la mia storia perché credevo che non interessasse a nessuno».
Beverley dettò Sweet Honesty all’amica Jaki daCosta, in parte per riuscire a dare un senso a quanto le era capitato. «Fu catartico» disse al telefono. «A volte mi cedevano i nervi e lei diceva, d’accordo, facciamo una pausa, prendiamoci un tè, mangiamo qualcosa. Dovevo rivangare il passato, ricordare cose spiacevoli. Per liberarmi di quella rabbia, di quell’amarezza, sono stata costretta ad andare parecchio dallo psicanalista. Sentivo di essere stata usata e poi gettata via. Mi sentivo inutile».
Le due amiche proposero il libro a diversi editori, ma quasi mai suscitarono un vero interesse. «Dicevano “Non sei famosa come John. Non siamo interessati”» scrive Beverley. «Oppure, “Non ci sono abbastanza aneddoti succulenti, dovrai aggiungerne parecchi”». Ma lei non voleva che la sua biografia risultasse squallida – «Volevo descrivere la rinascita di una donna» – perciò insieme alla daCosta decise di autopubblicarsi, cosa che fece due anni dopo la morte di John Martyn.
Sweet Honesty è scritto con un tono distaccato e la sua esistenza è importante sia per l’autrice che come documento storico. La violenza domestica non veniva presa molto sul serio negli anni Settanta e Ottanta: un uomo poteva fare praticamente di tutto senza essere punito (per approfondire l’argomento si veda l’opera di Ann Harris, Storms: My Life With Lindsey Buckingham and Fleetwood Mac). «Aveva spesso dei lividi sulle braccia» scrive la Faithfull di Anita Pallenberg, compagna di Brian Jones verso la metà degli anni Sessanta. «Nessuno diceva mai nulla. Che c’era da dire? Sapevamo tutti che era stato Brian».
Beverley Martyn ha continuato a comporre musica – il suo primo album dopo più di un decennio, The Phoenix and the Turtle, è uscito nel 2014 – ridando slancio a una carriera interrottasi quasi sul nascere (Joe Boyd, per il quale John Martyn era «un cattivo dei cartoni animati», ha dichiarato che era stato «deprimente vederla rinunciare alla sua carriera»). Le sue canzoni hanno un che di spettrale, senza tempo, e il suo lavoro, significativo di per sé, è ancora più prezioso perché è rimasto per tanto tempo occultato dal marito. I brani che canta oggi recano tutto il peso degli anni in cui nessuno le prestava ascolto.
Nella musica c’è ben più che la semplice musica – ciò che la ispira, la cultura e le circostanze che la nutrono e le conseguenze del messaggio che comunicano, hanno importanza. Sapere a cosa ha dato luogo Stormbringer! ne cambia la percezione; Grace and Danger ci appare sotto una luce diversa dopo aver letto la versione di Beverley Martyn circa la relazione che si rimpiange in quei brani. La storia di Beverley è rilevante per la sua opera, così come lo è per quella dell’ex marito.
Alla stregua delle canzoni di cui parlano, ognuno dei libri sopracitati grida: «Io c’ero!». Che fossero strafatte di lsd a casa di Brian Epstein o in preda agli effetti dell’hashish a letto con Mick Jagger, quelle donne erano prima di tutto giovani e innamorate. Nei primi anni di relazione Pattie Boyd e George Harrison erano stati davvero felici insieme, e quando nel 2001 la Boyd venne a sapere della morte dell’ex Beatles scoppiò in lacrime, si sentiva «completamente senza forze». Non sopportava «l’idea di un mondo senza George». In tour con David Bowie in Giappone, su un treno Angela vide una donna dare da mangiare al figlio piccolo con le bacchette. «Ci sorrise con una tale dolcezza che mi vennero quasi le lacrime agli occhi. Quando poi ho visto David brillare di orgoglio e amore per suo figlio, allora ho pianto. David sapeva essere così gentile, così premuroso; lo amavo moltissimo».
Mentre Suze Rotolo si trovava in Italia, Dylan le scriveva lettere bellissime: «Non credere che vada matto per i film, è solo che detesto il tempo, cerco di farlo passare, lo ammazzo, lo calpesto, lo getto a terra e lo prendo a calci, lo piego e lo mordo con le lacrime agli occhi. Odio il fatto di amarti». I ricordi che ha inserito nel suo libro rievocano lo stesso sentimento che esprime il suo sguardo sulla copertina di Freewheelin’, così come il tono con cui canta Don’t Think Twice, It’s All Right.
In altri passaggi le biografie racchiudono il brivido malato dell’ossessione, il terrore di queste donne di scoprire che il loro uomo fosse davvero geniale come credevano. La Boyd, all’alba della sua «inebriante, opprimente passione» per Eric Clapton, descrive la sensazione che provava guardandolo da un lato del palcoscenico: «Gli amplificatori vibravano, le luci mi abbagliavano, la musica mi esplodeva in testa e riecheggiava in ogni mia parte; era una sensazione incredibile, mi stimolava profondamente a livello sessuale». Non c’è bisogno di aver frequentato una rock star per riconoscere questo tipo di passione, il desiderio che annulla, né per comprendere lo struggimento di chi sa che il potere che brama non potrà mai essere suo.
Nella maggior parte delle relazioni questo potere è il prodotto di un attrito; superare la fine di un rapporto implica raggiungere gradualmente la consapevolezza che la straordinarietà dell’ex partner è stata in gran parte una nostra invenzione. Tuttavia sul momento il dolore ci sembra insopportabile. L’unico modo per farvi fronte è condividerlo con qualcuno, scoprire che anche altri l’hanno provato – la musica offre questo tipo di sollievo, per quanto il dolore descritto da una canzone possa non appartenere necessariamente al cantante – e trasformarlo in un qualcosa di concreto. «Ho fatto in modo che i sentimenti mi tornassero utili per la mia musica, invece che distruggermi» dice la Echols citando Janis Joplin. «È una benedizione». Avere talento è una «benedizione», sì, e può tramutare la tua sofferenza, o quella dei tuoi cari, in conforto per tanti sconosciuti.
È un processo benefico, ma può anche prosciugare di ogni energia. Nei libri di cui si è discusso emerge un elemento di alienazione: ci viene narrato non solo il dolore causato dall’abuso, il dolore di un cuore spezzato, della perdita di se stessi, ma anche quello di vedere altri appropriarsene. Sono gli stessi libri a rivendicare quel dolore per le autrici e, a prescindere dal loro valore letterario, queste opere offrono una forma di catarsi al lettore che riesce a immedesimarsi nella sua protagonista. Le canzoni rock conferiscono dignità alle pene d’amore, ma spesso la realtà è che saresti disposto a tutto pur di riprenderti ciò che un tempo ti apparteneva.
Inoltre i libri citati rappresentano un monito – forse inutile – a non lasciarci annientare dalla passione, a non precipitare nell’abisso. Questo è particolarmente vero per le donne, il cui valore purtroppo è da sempre definito dall’uomo cui si legano e il cui ruolo nel mondo del rock’n’roll, mai così libero come si vorrebbe far credere, è stato spesso svilito. Ma l’amore ha sempre la meglio su tutti noi e, guarda caso, gli uomini ne hanno cantato più spesso delle donne. «Alla fine non importa se ci si spezza il cuore e sanguiniamo dentro» scrive la Faithfull. «Forse il meglio che ci si possa aspettare da una relazione andata male è di uscirne con una bella canzone». O magari con un libro.
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Alexandra Molotkow è scrittrice e caporedattrice della rivista Hazlitt. I suoi scritti sono apparsi su New York Times Magazine, Walrus, Hairpin, Adult e Globe and Mail.
Titolo originale: Without You I’m Nothing, © Alexandra Molotkow, 2004, all rights reserved
Fotografia © Sara Reggiani