Questo pezzo è apparso originariamente su Bennington Review numero 6, inverno 2018/2019
The Palmer House, Hilton, Chicago
Le modanature bianche intarsiate e le pareti di quell’azzurro Tiffany, riesco a vederle mentre sto appollaiata sul water, tentando di espellere le ultime tracce dell’infezione urinaria. Saremmo dovuti andare al Violet Hour, uno speakeasy nascosto dietro un murale ogni volta diverso – un giorno la finta pubblicità di un ristorante polacco dietro l’angolo, un altro un’immagine di placche tettoniche che scardinano delle case. E un altro ancora una banalità, come la foto di un uomo che getta un mozzicone di sigaretta. Ollie dorme profondamente, di là, anche se ho lasciato la porta del bagno spalancata e le luci accese, in modo che sentisse ogni singola goccia della mia pisciata passivo-aggressiva infrangersi sull’acqua. Siamo appena arrivati a Chicago, e la nostra stanza d’albergo mi ricorda quei vecchi film natalizi che guardavo da piccola, prima di arrivare in America. Ha lo stesso calore sbiadito del Midwest, schegge di eleganza che lentamente si staccano, lo stesso che emana Kevin McCallister in Mamma, ho perso l’aereo quando cena da solo con una coppa di gelato avvolto in una coperta a quadri. O Tom Hanks in Big, tredicenne intrappolato nel corpo di un adulto che trascorre un pomeriggio senza supervisione da FAO Schwarz, tutto preso dal suono dei propri passi su una tastiera gigante. Entrambi i film sono ambientati a New York, ma immagino sia così che Chicago – con i suoi atri dorati, i soffitti decorati, le ottomane e i lampadari antichi – mi fa sentire: come se fosse Natale a luglio, e io una mocciosa che si traveste da adulta.
Vista così, è una scena divertente, un altro impedimento da adulti – ops! – per una bambina che non ha modo di sapere che cosa sia un’infezione delle vie urinarie, e che farebbe meglio a sbrigarsi ad andare in farmacia a comprare un po’ di polvere di mirtillo da sciogliere in un bicchier d’acqua – una polverina magica per porre rimedio ai nostri peccati. Se questo fosse un film, il leone dorato al posto della maniglia inizierebbe a parlare: Ehi, ragazzina, ricordati di bere tanta acqua e usare sempre il preservativo, mi direbbe in tono saggio, con accento britannico. Nella realtà, mando giù due pasticche di ibuprofene a per i dolori forti e svuoto con trasporto la riserva d’acqua del minibar.
In camera, Ollie indossa ancora i vestiti – i piedi penzolano dal letto con le scarpe allacciate. Il sole sta tramontando, inonda la stanza di luce ambrata. Nello specchio a tutta parete vicino al letto noto la splendida aria malinconica che la luce dà alla mia pelle. Questo albergo fu costruito da Potter Palmer per la moglie, Bertha Honoré. Si erano sposati quando lui era un miliardario in là con gli anni, e lei una giovane e irresistibile musicista, linguista e scrittrice. Nel testamento aveva lasciato tutti i soldi all’uomo che avrebbe sposato Bertha dopo la sua morte. Stavo per raccontare a Ollie questa storia quando una sera tardi ero stata presa da un raptus di ricerche su Google. Ho un’ossessione per le storie di chi è venuto prima di noi, di chi per un po’ ha occupato gli stessi spazi. Senza dubbio lo avrebbe trovato interessante, nel modo in cui in genere si trova interessante il contenuto di un podcast. Alla fine avevo deciso di tenermi tutto per me.
Ollie si rigira nel sonno. So già, dal modo in cui tiene la testa sul cuscino, che domattina si sveglierà con il collo indolenzito e inizierà a scherzare sulla sua età: Ormai ho trentatré anni, sono alla frutta, ma tu mi mantieni giovane, eccetera eccetera. Gli sistemo la testa e per un attimo penso di scendere a fumare, anche se gli avevo promesso di smettere. Invece mi sfilo i suoi vecchi boxer – i miei preferiti, quelli con la fantasia di cocktail estivi – e indosso un top bianco e la gonna in pied de poule che mi ha regalato lui, quella che invece fantastico di aver trovato da me, per caso, un giorno di pioggia in cui sono entrata in un negozio vintage di ritorno dal lavoro.
Nel bar dell’albergo, al piano terra, rimango seduta a lungo ad aspettare che arrivi un barista. «Un gin tonic, grazie» dico, perché osservando mio padre ordinare nei bar degli alberghi ho imparato che gli adulti ordinano sempre cose simili per farsi prendere sul serio, anche se in realtà avrebbero voglia di un Baileys corretto con liquore al cioccolato, shakerato fino a diventare una nuvola cremosa ricoperta di panna montata e ciliegie sotto spirito. Intorno a me ci sono soprattutto uomini d’affari, un ritrovo aziendale, immagino; le loro controparti femminili squittiscono avvolte in abitini fascianti ormai fuori moda, con i capelli piastrati e tacchi vertiginosi, tra gomiti sfiorati e risate d’intesa. Nel bel mezzo del pavimento barocco suona un gruppo live di musica jazz. Il soffitto è una pioggia di nudi botticelliani; una Venere dagli occhi spenti galleggia sopra le nostre teste, ambigua sin dalla nascita. La luce che filtra dalle porte girevoli è cambiata, dal tramonto dorato – L’ora migliore per fotografare una donna anonima e farla sembrare una fotomodella, mi ha detto una volta Ollie – a una tenue foschia violacea macchiata di rosso. Il sassofonista si esibisce in un notevole assolo che farebbe venire il cuore in gola a qualsiasi romantico, ma che per lo più al pubblico non sembra interessare. Questo albergo fu raso al suolo dal grande incendio di Chicago tredici giorni dopo esser stato completato. Più tardi, quella sera, mentre sollevo i lembi del lenzuolo quel tanto che basta per infilarmi a letto accanto a Ollie, penso: Perché avranno voluto farlo risorgere dalle ceneri?
Rodeway Inn, Boston
Ridiamo perché cinque minuti prima abbiamo parcheggiato di fronte al Courtyard, notando con una certa soddisfazione che ottanta dollari era un prezzo niente male per un posto del genere, per poi renderci conto di essere davanti all’hotel sbagliato. Il Rodeway Inn ha una carta da parati verde sbiadito che mi fa tornare in mente il capanno degli attrezzi sul retro della piscina coperta che avevamo alle medie. È perfino un po’ umida al tatto. Ma questo non rappresenta un problema per i suoi ospiti. Il Rodeway Inn si trova in zona aeroporto, e offre tutti i comfort necessari per chi transita da Boston, al prezzo più basso possibile. Alla receptionist non frega nulla della nostra mancanza di bagagli, o del fatto che siamo appena arrivati all’albergo deserto nel bel mezzo della notte, di mercoledì, con addosso una gran puzza di sigarette (io) e whiskey (Ollie). Ci dà la chiave con un pigro cenno verso lo stretto corridoio che ci condurrà in camera. «Caffè e tè gratis, 24 ore su 24» dice.
«Buonanotte» fa Ollie, anche se la sua, di notte, non andrà oltre una capatina al bagno in fondo alla sala e qualche pausa sigaretta nel parcheggio deserto.
Il caffè è del genere insipido e annacquato che trovi dappertutto negli alberghi economici e nei bed and breakfast in giro per i grandiosi Stati Uniti d’America. So già che domattina avrà esattamente il sapore di ciò di cui ho sentito la mancanza. Presi dall’eccitazione di essere di nuovo insieme, ci tratteniamo a fatica dal rincorrerci lungo il corridoio.
«Fai piano» biascica Ollie premendomi una mano sulla bocca ogni volta che pensa che stia per scoppiare a ridere. «Nella stanza a fianco ci sono dei bambini». E ridiamo ancora più forte. Un neonato inizia a piangere. Sono le due di notte, e siamo sopravvissuti per la prima volta a un mese intero senza vederci. Io sono appena tornata da casa mia, oltreoceano. I miei si erano rifiutati di rivolgermi la parola dopo che ero scappata via con un mezzo sconosciuto. Tre mesi prima, avevamo improvvisato un viaggio alle Bermuda, un weekend come ospiti dell’appartamento della madre a Hamilton. Ollie mi aveva mostrato i quadri minimalisti raffiguranti tsunami, disseminati sulle pareti della casa, e le conchiglie celesti e rosa incollate allo specchio del bagno. Per la prima volta in vita mia mi ero sbronzata a dovere, scolando una bottiglia di champagne mischiata a succo d’arancia, anche se ormai era notte e il Mimosa è un drink da aperitivo. Ollie aveva aperto una confezione di sigari Romeo y Julieta comprati all’aeroporto, ed eravamo rimasti seduti in terrazzo a osservare le onde, così silenziose e aliene, e quel cielo mite stracolmo di gigantesche falene, a fumare e bere facendo finta di conoscerci a tal punto da trovare normale quel weekend all’estero, quando avevo appena comprato un biglietto aereo e sfidato il Triangolo delle Bermuda assieme a uno sconosciuto.
Ed eccoci qui al Rodeway Inn. Domattina mi sveglierò con la bocca impastata da tutto il rosé, lui dirà che me lo merito per aver scelto un drink così infantile. Ci trascineremo in bagno cercando di decidere se bere acqua da quei vecchi rubinetti ci darà il colpo di grazia, e poi lo faremo comunque. Non avrà importanza perché lui è qui, noi siamo qui, mezzi addormentati, intrecciati su un materasso logoro e duro posato su una rete che lo sostiene a malapena, in una stanza d’albergo così vicino alle piste dell’aeroporto Logan che sento gli aerei rullare tirando su ghiaia tra le scanalature delle gomme, partire, atterrare.
Luxor, Las Vegas
Dalla finestra oscurata della Suite Cleopatra, osservo i corpi abbronzati entrare e uscire dall’acqua clorurata quattro metri più giù. Ripensandoci, dev’essere stato il quarto o il sesto giorno del nostro soggiorno nella piramide di vetro. Nell’antichità, gli aztechi avevano costruito la Piramide del Sole in modo tale che dalla punta della struttura si potessero trarre profezie da alcuni eventi astronomici, calcolando il rapporto tra la piramide e la posizione delle stelle e della luna. Anche il Luxor, a suo modo, obbediva a una strategia architettonica. Il vetro opaco impediva ai visitatori di mantenere la concezione del tempo, distinguere la notte dal giorno, e così diventavano prede facili per gli dèi del casinò. In sottofondo si sente il rimbombo di una playlist Top 40 in riproduzione continua, un battito rallentato che afferra e tira la rete di corpi sudati stringendone e allargandone le maglie; un rito in nome dell’anonimato. Mi chiedo se io invece riuscirò a districarmi dall’odioso ritmo di shots, shots, shots, shots, shots, shots, o se questo non abbia ormai preso il posto del mio battito cardiaco.
Trascorriamo la maggior parte del tempo nella piramide, lo sguardo fisso sul canale promozionale dell’albergo, a prendere in giro lo chef convinto di poter trasformare un hamburger in haute cuisine semplicemente spolverandoci sopra un po’ di tartufo. Scoppiamo a ridere ogni volta che la spumeggiante conduttrice grida esaltata «Mahi-Mahi!», con il disegno sottile al posto delle sopracciglia che si curva in un punto esclamativo sulla fronte abbronzata. Con tono serio Ollie osserva a margine che «Il tonno pescato in acque calde è una merda e non andrebbe mai mangiato crudo».
Già sbronza, ancora una volta, annuisco ripetendo: «Mai crudo».
Però non mangerei altro che pesce crudo. Dato che siamo bloccati in questa desolazione tutta americana, non abbiamo molta scelta. Vaghiamo per il tortuoso labirinto di alberghi lungo la Strip, opportunamente sprovvisto di orologi, tenendoci per mano e passando da un vicolo all’altro, tra pubblicità e getti d’aria condizionata. Bloccati nella Terra del Limbo. A un certo punto optiamo per un baracchino che serve aragoste e Bloody Mary ornati da una coda di mazzancolla. Olly beve il cocktail mentre io afferro la coda estraendola dal bicchiere di plastica. Somiglia a un braccio deforme, piccolo e rosa pallido. Mi costringo a mangiarlo comunque. Sa di congelatore, di pezzetti di carne dimenticata.
«So che tecnicamente non è pesce crudo…» inizia a dire Ollie, ma gli rispondo che era quello che volevo.
Più tardi quella sera, o forse un’altra, andiamo a vedere uno spettacolo di magia da due soldi. Il mago è il classico belloccio, truccato con l’eyeliner, onnipresente nelle boy band del passato, come i Panic! at the Disco. Ci prova senza ritegno con la moglie di qualcuno che ha chiamato sul palco, non riesce a far scomparire un bestione di motocicletta e si arrabatta con qualche trucco patetico. Per l’ultimo atto, si prepara a tagliare in due una ragazza. Mentre lei – mora e con delle gambe bellissime, anche se troppo magre – viene fatta salire su una piattaforma rotante in mezzo al palco, sento uno strascico di nausea affacciarsi alla bocca. Ollie mi stringe forte la mano, forse perché sa che detesto l’intrattenimento alla Non aprite quella porta o The Human Centipede, o forse perché pensa sia la cosa giusta da fare al momento. So che non c’è assolutamente modo che sappia – non posso aspettarmi che sappia – che quando chiudo gli occhi nel ronzio della sega del mago, è il crostaceo a forma di braccio che vedo. Piccolo, rosa e morto, da qualche parte dentro al mio stomaco. Le gambe della mora, senza la mora, ricompaiono sul palco scalciando in modo buffo, fuori tempo sulle note di una canzone allegra. Dal soffitto cade una pioggia di coriandoli, e Ollie alza entrambe le mani, palmi all’insù. Me li offre come manciate di petali di rosa.
A letto, più tardi, ci giriamo l’uno verso l’altra. «Sarebbe diventato un marinaio» sussurro nella luce soffusa. Appoggio una mano sulla bocca di Ollie, cancellando quel che resta del suo sorriso. Rimaniamo distesi lì, ad aspettare educatamente che l’altro si addormenti per primo, io consapevole, nel silenzio, che il mio battito sta rallentando sempre più verso il ritmo del sonno, mentre Ollie disegna cerchi simili ai ritmi circadiani sulle lenzuola profumate di detergenti da albergo. Alla fine cediamo. La notte successiva decido di voler uscire dal baratro in cui involontariamente siamo caduti. Insisto perché ci prepariamo in stanze separate, come ragazzini al primo appuntamento, indossando i vestiti pacchiani appena acquistati al negozio di souvenir. Quando le porte scorrevoli della piramide si aprono, il caldo ci coglie di sorpresa. La pesantezza della Strip è estranea alla nostra pelle abituata a stare al chiuso. Per un attimo ci teniamo per mano, dando modo all’aria pesante di posarsi sui nostri nuovi corpi. Accendo la prima sigaretta dopo molto tempo. Di notte, le luci di Las Vegas brillano dando vita all’oasi frenetica che la città è stata progettata per diventare, i neon fucsia come fenicotteri allungati verso il deserto, un’insegna che pubblicizza stanze libere che non aspettano altro che essere riempite.
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Titolo originale, Hotel Rooms, copyright @ Naphisa Senanarong, all rights reserved.
Traduzione di Federica Principi.